“Non siamo supereroi, ma restiamo quando l’umanità si spegne”: la storia di Manuela Vadilonga, soccorritrice del 118 di Cagliari

  49 anni, un sorriso contagioso e una grande forza d’animo tipica di chi ha imparato a fare i conti con il tempo, con le ferite e con la vita: “Il prossimo luglio sarò al giro di boa”, dice Manuela Vadilonga. Vive e lavora a Cagliari, dove da più di trent’anni si muove tra mare e sirene, tra il silenzio delle immersioni e il frastuono delle emergenze. Ha iniziato appena diciottenne come assistente bagnanti, poi si è specializzata nel soccorso in mare. “Parallelamente sono diventata guida subacquea per portatori di disabilità fisiche”, racconta con orgoglio. Oggi, nel mondo subacqueo, è safety diver: “Le manifestazioni a cui ho preso parte sono state negli ultimi due anni in Sardegna, l’ultima è stata il campionato mondiale di tuffo acrobatico da Porto Flavia. Un’esperienza intensa”. Ma la vera vocazione è arrivata dopo. “Il 118 è arrivato più tardi — eppure è quello che mi ha appassionato di più”. Non ricorda la prima volta in ambulanza, ma ricorda benissimo la sensazione di nostalgia quando, per un periodo, aveva deciso di smettere.

  “Il ritorno mi ha emozionato più della prima volta” confessa. Gestire la pressione, imparare a mantenere la calma davanti al dolore non è semplice. “Credo che contino molto l’esperienza, la formazione e la fortuna di aver avuto ottimi maestri. La prima cosa che facciamo, quando arriviamo sul luogo di un intervento, è valutare la sicurezza della scena: se non possiamo intervenire, dobbiamo chiamare polizia, vigili del fuoco, carabinieri. Ci sono protocolli precisi che ci aiutano a lavorare sereni, anche se non siamo sanitari di professione”. Eppure, non basta la tecnica. “Serve sangue freddo, e forse io sono avvantaggiata perché il soccorso in mare mi ha forgiato tanto. Ma questo modo di essere si trasferisce anche nella vita: purtroppo si finisce per mettere da parte le emozioni, non si vivono come sarebbe giusto”. Il ricordo più difficile è inciso nella memoria.

  “L’intervento più brutto è stato l’incidente del bambino di via Cadello, in cui morì un bambino. Mi è costato tanto, emotivamente. Ho dovuto lavorarci con un bravissimo psicologo che mi ha restituito il sonno. Non voglio entrare nei dettagli, non voglio riviverlo”. Ci si protegge diventando di ghiaccio, dice, ma il dolore arriva comunque. “Non esiste un modo per non essere sopraffatti. Io in quei momenti vado avanti come un treno, ma poi, dopo, serve qualcuno accanto”. Il sostegno dei colleghi è vitale. “Dopo eventi tragici ci si ritrova, si parla, si snocciola tutto finché il dolore diventa più sopportabile. Sono spalle, sono famiglia. Tutti, prima o poi, hanno vissuto un intervento che ti segna”. Poi c’è anche la luce, quella che fa tornare ogni volta. “Un anno dopo la morte del bimbo, io e la squadra abbiamo salvato da un arresto cardiaco una donna di 50 anni, mamma di un bambino speciale. Quando sono andata a trovarla in ospedale, dopo aver scherzato per averle tagliato il piumino Colmar durante il soccorso, mi ha solo abbracciata. Ci siamo commosse. Non servivano parole”.

  Alla fine, riassume tutto in una frase che rimane dentro: “I soccorritori sono figli, genitori, contenitori di emozioni di sconosciuti di cui si riempiono, spesso senza riuscire a svuotarsi. Non siamo supereroi, non sempre salviamo vite. A volte salviamo la dignità delle persone. Essere soccorritori significa restare, quando vanno via tutti, quando l’umanità si spegne. Perché anche una parola, in un momento di fragilità, può fare la differenza. Ecco, questi siamo noi”.

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