Ci sono battaglie che non si vedono, ma che consumano ogni giorno un
pezzo di vita. L’endometriosi è una di quelle malattie invisibili che colpiscono
in silenzio. Senza farsi vedere. Senza farsi ascoltare. È una battaglia
quotidiana, combattuta da donne che troppo spesso vengono ignorate,
sminuite, lasciate sole.
Una di queste guerriere è Daniela Porcu, villagrandese. È la prima volta che
ne parla apertamente, prima la vergogna la frenava.
Lei ha iniziato a sospettare che qualcosa non andasse quando il dolore
durante il ciclo è diventato insopportabile. «Non era solo un fastidio - racconta
- era un dolore che mi limitava nella vita di tutti i giorni, sia fisicamente che
mentalmente».
Con il tempo, i sintomi si sono moltiplicati: stanchezza cronica, disturbi
intestinali, difficoltà di concentrazione.
«Mi sentivo incompresa. Mi dicevano
che era normale, che “succede a tutte”. Ma dentro di me sapevo che non era
così».
Nel 2016 arriva il primo ricovero, ma senza diagnosi. Poi visite, esami,
controlli, e ancora dubbi. «Sapevo che non era normale stare così male»,
ripete Daniela. Nemmeno i migliori medici riuscivano a darle risposte
definitive, e intanto gli antidolorifici non facevano più effetto.
Dopo anni di attese e incertezze, il 29 marzo 2024 arriva finalmente la
diagnosi: endometriosi profonda, adenomiosi e cisti dermoide. Ma anche in
quel momento, qualcuno le dice: «Non è grave, ne ho viste di peggiori».
Daniela però non si arrende. Parte per cercare altri pareri: prima Bologna, poi
Negrar, in un centro specializzato. «A Bologna mi dissero subito che dovevo
operarmi, ma l’intervento sarebbe costato 13.000 euro. A Negrar invece mi
confermarono che era necessario, e che avrei dovuto farlo già nel 2019».
A Negrar va per la prima volta a fine settembre, ma il giorno dopo viene
chiamata: l’operazione è fissata per ottobre.
Convivere con l’endometriosi, racconta Daniela, significa «fare i conti ogni
giorno con un dolore invisibile, che può colpire all’improvviso». A volte è una
fitta che piega in due, altre volte una stanchezza profonda che svuota corpo e
mente. «Significa programmare tutto con un punto interrogativo, imparare ad
ascoltarsi e a riconoscere i propri limiti».
Ma oltre al dolore fisico, c’è una battaglia sociale ed economica: visite
costose, viaggi per trovare centri specializzati, giorni di lavoro persi. «È una
lotta che si combatte anche fuori dal corpo» dice Daniela. «Contro l’invisibilità
della malattia e contro chi non capisce».
Nonostante tutto, mantiene uno sguardo di gratitudine: «So di essere
fortunata. Ci sono donne che vivono forme più gravi, che lottano con
l’infertilità o sofferenze ancora più profonde. Cerco sempre di trovare una
luce di riconoscenza per ciò che ho e per la forza che ogni giorno mi dà la
voglia di non arrendermi».
Le parole di Daniela si fanno più amare quando parla di incomprensione: «Ci
sono stati medici che hanno liquidato i miei sintomi come esagerazioni. Una
volta, al pronto soccorso, mi hanno dimessa prescrivendomi il Gaviscon: per
loro era solo “bruciore di stomaco”».
Col tempo, però, ha imparato a reagire: «Chi sminuisce spesso lo fa per
ignoranza, non per cattiveria. Per questo credo che parlarne serva, a me e a
tutte. Serve per farsi ascoltare e per aiutare chi si riconosce in questa storia».
Durante la scuola, racconta, si sentiva spesso incompresa. «Quando stavo
male, pensavano che fingessi». Oggi, invece, lavora come assistente sociale
e ha trovato un ambiente empatico. «Ho condiviso la mia diagnosi con le
colleghe, che si sono dimostrate comprensive e presenti. È importante poter
essere fragili senza paura».
Il corpo, segnato dal gonfiore e dalla fatica, è diventato per lei un terreno di
riconciliazione. «Ho smesso di trattarlo come un nemico. Ho imparato a
leggere i suoi segnali e a volergli bene. Non è facile, ma oggi so che il mio
valore non dipende da quanto è piatta la mia pancia».
Per Daniela, raccontare è un atto di forza. «Non bastano i dati clinici: bisogna
parlare delle esperienze reali. Solo così le persone capiscono cosa significa
convivere con questa malattia».
E aggiunge: «Serve educazione, soprattutto tra i più giovani, per arrivare
prima alla diagnosi. E serve coinvolgere tutti: partner, amici, colleghi.
L’endometriosi non si vede, ma si sente. Ogni giorno».
L’intervento chirurgico è stato un momento di svolta: «È stato intenso, pieno
di paura ma anche di speranza. Finalmente sentivo che qualcuno stava
guardando dentro di me».
Sa bene che non si tratta di una guarigione definitiva, ma di un nuovo
equilibrio: «È stato un punto di partenza. Ho imparato ad ascoltare il mio
corpo e a non perdermi d’animo».
Quando le si chiede quale sia la parte più difficile, non ha dubbi:
«L’incomprensione. Il dolore è invisibile, e questo ti fa sentire sola. Ti ritrovi a
dover giustificare la tua sofferenza a chi non la vede, a rinunciare a momenti
di vita perché il corpo non ti segue».
Il suo desiderio più grande è rompere il silenzio. «Vorrei che l’endometriosi
fosse conosciuta e riconosciuta fin da subito, che nessuna donna dovesse
più sentirsi sola o inascoltata. Serve più empatia, più informazione, più
supporto. Dietro ogni storia di dolore c’è un cuore che merita di essere
ascoltato».
E conclude: «Vorrei che il mondo smettesse di voltarsi dall’altra parte.
Riconoscere questa battaglia silenziosa non è solo un atto di giustizia, ma un
passo fondamentale per cambiare la vita di milioni di donne. Servono più
diritti».
Le battaglie silenziose non fanno rumore, ma cicatrici profonde… le stesse
che oggi diventano consapevolezza. E forse, proprio da quel dolore, può
nascere una nuova solidarietà tra donne: una solidarietà condivisa.