Napoli-Cagliari 2-0, cronaca di una resa annunciata: tra romanticismo offeso e futuro negato

Napoli, Stadio Diego Armando Maradona – C’è un profumo d’altri tempi nell’aria, quel misto di sale e nostalgia che solo certi stadi sanno evocare. Sul prato verde, incorniciato da una cornice ancora vibrante di uno scudetto fresco come il sangue di maggio, il Napoli torna a far valere la legge del più forte. Ma la sera, umida e sospesa, racconta più del risultato. Il Cagliari arriva con il passo sommesso di chi non può permettersi di illudersi. Lo fa con una formazione che lascia fuori uomini simbolo, decisioni che paiono più il preludio a un’estate di riflessioni che a una battaglia vera. Elia Caprile, ad esempio, resta a casa: scelta tecnica, si dice. Ma nel calcio, come nella vita, è nelle omissioni che si leggono i progetti. O le rinunce. Il Napoli comanda il gioco da subito, ma il Cagliari, almeno nel primo tempo, non sfigura. Lo spirito c’è, e pure un piano partita sensato: linee strette, marcature prudenti, contropiede in potenza più che in atto. Davide Nicola, tecnico che sa di trincea e sopravvivenza, si affida a ciò che ha, che è poco, sperando che basti. Non basta. Serve una prodezza di McTominay – una rovesciata d’alta scuola – per scardinare il fortino rossoblù. Un gesto tecnico da calcio romantico, da figurina Panini d’annata, che in altri tempi sarebbe bastato per riempire le prime pagine. Oggi invece serve solo a rimettere in ordine le gerarchie. Il Napoli, pur svogliato, è più forte. Il Cagliari, pur volenteroso, è ancora troppo fragile. Nella ripresa, il copione si ripete: i sardi reggono, barcollano, ma infine cedono al secondo acuto azzurro. Non ci sono miracoli né eroismi. E se un tempo il Cagliari andava sui campi nobili col petto in fuori e la testa alta, oggi ci va col timore e il calcolo. A mancare, più che i piedi, è lo spirito. Non bastano l’orgoglio di Deiola, la generosità di Makoumbou, né la grinta intermittente di Mina – che pure, per lunghi tratti, è il migliore. Non bastano nemmeno le parate di Sherri, che si guadagna i guantoni con dignità. I cambi sanno di logica saltata: Obert per Augello, mentre i giovani – convocati, ma invisibili – restano a guardare, ancora una volta, un domani che non arriva mai. La sensazione è chiara: non si è persa solo una partita. Si è persa un’occasione. Quella di provare, osare, magari sbagliare, ma almeno indicare una direzione. Invece si è scelto il solito, stanco compromesso tra l’oggi e il nulla. Perché a forza di celebrare la salvezza come fosse un trofeo, si è smarrita la voglia di crescere. Da undici anni il Cagliari campa sul filo di lana, vive di miracoli e si aggrappa all’ultimo respiro. Ma prima o poi anche il fiato finisce. E allora, cosa resta? Restano parole altisonanti: guerrieri, identità, cuore sardo. Ma se poi Caprile non gioca, i giovani non vedono il campo, e l’unica certezza è la paura, allora quelle parole pesano come un’offesa. Restano i tifosi, come sempre. Ma anche la loro pazienza ha un tempo massimo. Il Napoli vince, il Cagliari torna a casa. Niente di nuovo, dirà qualcuno. Ma per chi ama questo gioco con la memoria lunga e il cuore appeso ai ricordi, è proprio questa normalità il dato più allarmante. Un tempo, anche perdendo, il Cagliari sapeva far innamorare. Oggi, al massimo, lascia rassegnati. E nel calcio, come nella vita, è molto peggio.

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