La piazza di San Bartolomeo, a Cagliari, è stata oggi il cuore pulsante di un'isola che non si arrende. Un fiume di volti, provenienti da ogni angolo della Sardegna, ha confluito per un coro unanime: no alla speculazione energetica, no all'assalto indiscriminato al territorio in nome di un progresso che, agli occhi dei manifestanti, appare sempre più come una nuova forma di colonizzazione.
La miccia che ha acceso la protesta è l'annuncio dell'ennesimo impianto fotovoltaico, questa volta sul suggestivo colle di Sant'Elia, uno scrigno di storia e natura che rischia di essere sacrificato sull'altare di un modello di sviluppo calato dall'alto. Ma Sant'Elia è solo l'ultima ferita aperta in un corpo già martoriato. La Sardegna, terra di bellezza aspra e di tradizioni millenarie, si trova oggi ad affrontare un dilemma cruciale: come coniugare le esigenze energetiche nazionali con il rispetto di un paesaggio e di un'identità che sono patrimonio inestimabile?
«Nessuna legge tutela la Sardegna», gridano i cartelli, parole che risuonano come un'accusa diretta a un sistema legislativo che, a detta dei manifestanti, si rivela cieco di fronte alle specificità e alle vulnerabilità di un'isola. La critica non è rivolta al principio stesso delle energie rinnovabili, la cui necessità è ampiamente riconosciuta, ma alla modalità con cui queste vengono imposte. Non si tratta di un mero "Nimby" – "Not In My Back Yard" – come talvolta si cerca di etichettare queste forme di dissenso, ma di una profonda rivendicazione di autodeterminazione.
La Sardegna, con le sue risorse e le sue potenzialità, non vuole essere una terra di conquista, una mera riserva energetica per il continente, ma un soggetto attivo, capace di definire il proprio futuro. I comitati anti-speculazione energetica, che hanno animato la piazza, rappresentano un nuovo fronte di resistenza culturale e politica, un sintomo della crescente consapevolezza che la difesa del territorio è intrinsecamente legata alla dignità di un popolo.
La questione del fotovoltaico, e più in generale quella energetica, si inserisce in un quadro più ampio di disparità e di subalternità. La Sardegna, pur ricca di sole e vento, paga l'energia a caro prezzo, e il paradosso di dover ospitare impianti invasivi senza un reale beneficio per la popolazione locale alimenta un senso di ingiustizia sociale che si traduce in un grido di allarme.
Il futuro dirà se questa protesta saprà tradursi in un movimento duraturo capace di influenzare le politiche nazionali e regionali. Ciò che è certo è che la piazza di Cagliari ha lanciato un messaggio chiaro: la Sardegna non è disposta a sacrificare la sua anima in nome di un progresso che non la vede protagonista, ma solo vittima. È un appello alla coscienza collettiva, un monito affinché la ragione economica non prevalga sulla ragione umana e ambientale.