In apparenza, la questione palestinese è il teatro perfetto per la coscienza occidentale. Un dramma che si ripete da decenni, utile a ripulire l’immagine morale di governi e opinioni pubbliche, senza dover mai toccare davvero gli interessi strategici. Il sostegno umanitario a Gaza, le marce per la pace, le dichiarazioni indignate dei leader europei: tutto sembra parte di un rituale ripetitivo, quasi liturgico, che consente all’Occidente di accarezzare la propria idea di superiorità etica.
Ma dietro questo gesto apparentemente solidale si nasconde una funzione geopolitica più profonda. Perché in realtà l’Occidente non ha mai avuto alcuna intenzione reale di risolvere la questione israelo-palestinese. Al contrario: la sua persistenza serve a mantenere un equilibrio di potere funzionale, un caos calcolato che garantisce la stabilità degli alleati nella regione e preserva il ruolo centrale di Israele come avamposto occidentale in Medio Oriente.
Ogni volta che esplode una crisi, i governi europei distribuiscono aiuti umanitari, rilasciano dichiarazioni di condanna e finanziano progetti di emergenza. Ma nessuno si spinge oltre. Nessuno osa affrontare davvero le ragioni storiche e strategiche del conflitto. Non si parla delle responsabilità britanniche nel mandato in Palestina, né delle contraddizioni interne alle leadership palestinesi. Non si discute del fatto che, nel cuore del Levante, Israele è percepito come una garanzia contro le derive potenzialmente ostili di alcuni Paesi arabi.
La schizofrenia occidentale si misura così: da un lato si finanzia la cooperazione militare con Israele (con vendite di tecnologia dual use, sistemi cyber offensivi, intelligence), dall’altro si invoca la pace e si piangono i morti palestinesi. Un equilibrio tra morale e potenza, dove la prima è semplicemente la vetrina che copre la brutalità della seconda.
Il problema non è la commozione. È la strumentalizzazione. I palestinesi sono stati trasformati in simboli, in «vittime ideali» che devono rispondere a un bisogno morale, non a un progetto politico reale. Per l’opinione pubblica europea, abituata a narrazioni binarie, la Palestina è la nuova frontiera dell’innocenza da difendere. Ma si tratta di un’innocenza di cartapesta, utile a sentirsi «giusti» senza mettere in discussione nulla.
Ecco allora la sfilata delle bandiere, gli slogan gridati nelle piazze di Londra, Parigi, Berlino, Roma. Le foto con la kefiah su Instagram, i talk show che ospitano esperti improvvisati. Tutti convinti di partecipare a una causa globale, quando in realtà si alimenta un gigantesco teatro simbolico.
In geopolitica non esistono «vittime pure» né «colpevoli assoluti». Esistono rapporti di forza, interessi, compromessi. La questione palestinese non sfugge a questa regola. Se l’Occidente avesse voluto davvero una soluzione, avrebbe imposto un processo di pace stringente, sostenuto un progetto statale credibile, fatto pressione reale su Israele e sui Paesi arabi coinvolti. Ma nessuno ha interesse a vedere davvero la nascita di uno Stato palestinese sovrano e stabile, perché ciò minerebbe l’assetto attuale, ridurrebbe la dipendenza della regione dagli equilibri imposti da Washington e Bruxelles.
La verità, scomoda ma inevitabile, è che la causa palestinese è un alibi. Un contenitore morale che permette di non guardare oltre. Serve per lavarsi la coscienza, per sentirsi ancora protagonisti di un’umanità universale che, in realtà, non è mai esistita.
Nel frattempo, la macchina militare israeliana continua a essere alimentata anche dalle stesse democrazie che dicono di difendere i diritti umani. I governi europei investono in aziende di sicurezza e tecnologia israeliane, acquistano sistemi di sorveglianza che finiscono per rafforzare quell’apparato che dicono di voler contenere. E quando l’opinione pubblica si indigna, gli stessi governi inviano aerei carichi di medicinali, confezioni di cibo, tende da campo. Così la contraddizione si chiude in un ciclo perfetto: vendiamo armi, ci indigniamo, mandiamo aiuti, torniamo a vendere armi.
Il risultato? Una lotta trasformata in feticcio, un popolo ridotto a mascotte della coscienza progressista occidentale. E un conflitto che resta insoluto, utile a chi trae forza dal disordine.
Se c’è un senso in questa schizofrenia, è quello di una perfetta auto-assoluzione collettiva. L’Occidente non sostiene i palestinesi per liberarli, ma per continuare a sentirsi dalla parte giusta senza mai rischiare nulla. Un lusso che solo chi detiene la potenza o e ancella, cliens della stessa, può permettersi.