Il presente articolo nasce come riflessione critica a margine del mio intervento
del 7 agosto 2025, tenuto nella Sala Duce di Palazzo Ducale a Sassari, in
occasione della presentazione della mostra 130 uomini coraggiosi – Gloria, la
macchina a spalla di Santa Rosa di Viterbo, il reportage fotografico di Costantino
Idini. In quella sede ho commentato, da prospettiva demoetnoantropologica, il
lavoro fotografico di Costantino Idini, evidenziandone la forza rituale, la
profondità etica e il valore documentario; e il testo che segue, riprende e amplia i
temi affrontati durante l’incontro con il pubblico.
Nel suo reportage e attraverso la sua arte, il fotografo Costantico Idini ci invita
ad osservare e ascoltare; non solo la macchina, simbolo fisico e meraviglioso alto
oltre 30 metri, ma i corpi che la portano: 130 uomini che si fanno colonna
vertebrale di una maestosa tradizione. La fotografia di Idini non cerca l’effetto
spettacolare: cerca l’essenza antropologica dell’evento; e le inquadrature,
serrate e rispettose, danno spazio alla tensione tra sacro e profano, tra fisicità e
spiritualità. Il bianco e nero scelto dall’autore non è estetica nostalgica, ma è un
vero e proprio linguaggio etnografico, poiché svuota il colore, amplifica la
forma, mette a nudo i volti, le mani, i passi degli attori della festa.
Idini non si pone sopra le storie, come dice lui stesso: “Dentro le storie, mai
sopra”. Questo principio guida ogni scatto, e l’opera non diventa solo
documentazione, ma una vera e propria immersione culturale. Nella biografia
del fotografo si delineano anni di ricerca tra favelas, festival jazz, riti religiosi e
progetti multimediali, tutti accomunati da una tensione etica profonda:
fotografare per capire e comunicare, non per esibire.
Nella mostra di Sassari, il trasporto della Macchina di Santa Rosa viterbese
diventa rito collettivo e immagine di identità territoriale, dove i soggetti non
sono mai oggetto, ma protagonisti, alleati, e portatori di memoria. Idini, con il
suo sguardo sensibile, contribuisce alla salvaguardia visuale del patrimonio
immateriale. Le foto della mostra non fermano il tempo, perché lo amplificano;
fanno spazio alla fatica, alla preghiera muta, all’urlo collettivo che sostiene la
Gloria.
Questa mostra non è solo bella: è necessaria; e avviene in un tempo che consuma
immagini, laddove Idini propone uno sguardo che le restituisce al silenzio, alla
sacralità del gesto, alla memoria dei corpi. 130 uomini coraggiosi è una mostra
demoetnoantropologica perché interroga il rito senza snaturarlo, facendosi
documento, un atto d’amore, un esercizio di ascolto; ed è, soprattutto, una
testimonianza visiva di come la fotografia possa diventare spazio culturale
condiviso.
Tre sguardi sulla mostra: digressione fotografica demoetnoantropologica.
Su mia richiesta, Costantino Idini ha gentilmente condiviso tre scatti fotografici
che arricchiscono la lettura del rito con una dimensione visiva e interpretativa.
Le immagini, lontano dall’essere semplici documentazioni, diventano oggetti di
dialogo critico e tracce di una relazione di fiducia.
La prima immagine - In bianco e nero, fissa l’istante in cui i facchini attendono di
iniziare la salita. I corpi sono tesi, il gesto è sospeso, lo spazio è carico di energia
rituale. La scritta Gloria in Excelsis sovrasta la scena, suggerendo una
dimensione paraliturgica del movimento imminente: questa foto non si limita a
rappresentare, ma interpreta, perché rivela un frammento di tempo che si fa
corpo e simbolo.
La seconda immagine - La Macchina avanza nella notte, illuminata e sorretta dai
facchini; qui la tradizione si fa carne visibile: la luce artificiale attraversa il buio
per fondersi in un connubio perfetto tra sacro e profano, mentre i corpi
sembrano confondersi con la struttura. Lo scatto suggerisce un’unione tra gesto
e fede, in cui il fotografo partecipa senza invadere, lasciando emergere la
tensione emotiva del momento.
La terza immagine - Catturare l’atto stesso dell’innalzamento. I facchini
sollevano la Macchina con gesto sincronico e quasi sacrale: una coreografia che
parla di sacrificio, coordinamento, disciplina. Il senso dell’elevazione è tanto
fisico quanto simbolico; e la verticalità dell’inquadratura rimanda a una salita
spirituale, come un’offerta collettiva al divino.
Queste fotografie, frutto di una relazione di fiducia e di un invito esplicito, sono
veicoli narrativi e testimonianze etiche. Idini non invade lo spazio paraliturgico
della festa viterbese, ma lo attraversa con rispetto e sensibilità, accompagnando
lo spettatore dentro la ritualità della tradizione senza mediazioni esterne. Nella
mia lettura critica, queste immagini diventano ponti tra corpo, fede e memoria:
e proprio per questo meritavano una sezione dedicata.