Memorie algheresi: Il Kon-Tiki di Alghero (Parte II)

  L’alto e robusto albero poggiava su robusti basamenti di legno, tutto tenuto insieme da grosse funi. Un fine settimana, apparvero sui muri della città insoliti manifesti con una grafica elementare e senza giri di parole si chiedeva alla gente di collaborare al varo della imbarcazione da farsi la domenica mattina. E insolitamente la domenica mattina il piazzale antistante la sede della Lega Navale si riempì di gente. Mai si era visto quell’ultimo angolo di porto così popolato. Davanti allo scalo del mandracchio, lato terra, da un camioncino furono scaricate decine di scatole contenenti bottiglie con vino spumante, di qualità,che una antica e nota cantina vitivinicola Algherese mise a disposizione. Fu allestito un bancone e alcuni ragazzi in giacca, camicia e farfallino, probabilmente allievi dell’istituto Alberghiero, servivano su richiesta la bevanda “ad libitum”. Quanto ne volevi, il resto erano affari tuoi! Intanto dagli addetti ai lavori, furono approntate due lunghe e grosse funi di canapa che sarebbero servite per tirare lungo il piazzale e il varo “all’ascat”. 

  L’operazione mostrò tutte le sue difficoltà, gira gira la costruzione al confronto era stata una bazzeccola. Nonostante la buona volontà di centinaia di persone che tiravano, la pesante imbarcazione non accennava a muoversi e lo sforzo fisico iniziava a mostrare segni evidenti sulle mani arrossate e dolenti. Da lì quel “molmall no sa muieva”. Nel frattempo si era fatto ora di pranzo… Se per gli alemanni il pranzo consisteva in un panino con un wustel e crauti e una spalmata di fetida mostarda, il tutto allungato da una birretta al 3,0 gradi alcoolimetrici ed erano subito pronti per l ” erbeiten”il lavoro. Per noi indigeni era un po' diverso. Il pranzo italico domenicale alla fine degli anni 70 aveva altri connotati. Vediamolo nel suo giusto contesto. Quel periodo particolarmente florido, era caratterizzato da una buona disponibilita economica, l’Italia e la provincia di Sassari in particolare erano all’apice del boom economico e godeva di un benessere mai visto, il pranzo domenicale rispecchiava questa abbondanza, passare per le vie “de l’alghe vella” di domenica mattina ora di pranzo si provava un apoteosi olfattiva, un orgasmo culinario. Nel primo piatto la pasta non doveva mancare mai, spaghetti o tagliatelle o ravioli abbondantemente ripieni con condimento di ragù con carne per iniziare, a seguire, carne al forno o come ripiego, fettine impanate (tre a testa) nella pastella di uova sbattute e pane “ pugnat dur”grattuggiato e fritte in rigoroso olio di oliva “ori nostru”, contorno di patate fritte sempre con “ori nostru che es mes bò. Pane e vino a 13,5 ° gradi, quanto basta “a ta crapà”. Le da poco trascorse tirate di cinghia dovevano pur essere rimosse. La parola“dieta”era intesa come una parolaccia. E così, sazi al punto giusto “prenz coma l’ou”, molti si ripresentarono al piazzale della Lega Navale, ma non prima di aver ingollato un altro paio di bicchieri del buon Brut sempre disponibile, “pe digirì” per digerire.Ovviamente la gente era diminuita rispetto al mattino e il peso dell’imbarcazione sembrava essere aumentato. Al aumento di calorie non corrispondeva un aumento di energia muscolare e non ci volle molto,per i tedeschi, a realizzare che quella imbarcazione a quelle condizioni non si sarebbe mossa. E qui scattò l’ efficientismo Made in Germany, nel giro poco tempo fu chiamato al porto un grosso camion, il solo trattore, che trainò in retromarcia l’imbarcazione e poi la spinse giù per la scalo del mandracchio. Grande applauso e reciproche congratulazioni, un altro passo in avanti. 

  Non so se il lavoro del camion venne pagato o fu offerto, ma con la stessa tempistica dell’arrivo se ne andò. Per quella notte la imbarcazione fu “ramigiara” ormeggiata nella banchina in prossimità “de l’ascat”. Il tempo era sul buono, ed i giorni seguenti “la balca feta de cagna” navigò all’interno del golfo di Alghero, faceva un certo effetto vedere questa improbabile imbarcazione “i chi n’avia mai vist?” Ad Alghero non abbiamo i venti alisei che soffiano costanti, come nell’Oceano Atlantico, ne le correnti di Humbolt che trascinano le imbarcazioni nell’ Oceano Pacifico, ma i nostri modesti (con il tempo buono) Maestrale e Libeccio come padroni di casa, ma si fanno pure aspettare. La sera o la mattina presto, prima che uscissero, andavo a vederla e notavo che lo scafo era sempre più basso sul pelo dell’acqua, segno evidente che le canne del Reno non erano migliori delle canne sarde. Un giorno la vidi oltre Capo Caccia, mi capitò di vederla dall’alto. Ero sul piazzale della Siesta alla fine dei tornanti di Scala Piccada, in quella terrazza con vista a mare e una prospettiva diversa, “lu fruntuni”non è la parete di roccia che chiude l’orizzonte a nord-ovest, ma una lunga lingua di roccia che si allunga in mezzo al mare e l’orizzonte è molto più in là. E lei era là fuori, con tutto il mare aperto davanti a se. Un leggero libeccio la stava portando a nord, tornare indietro era impossibile. Fu l’ultima volta che la vidi, so che che arrivò a Castelsardo dopo aver doppiato Punta Scorno del Asinara e probabilmente spinta dal Maestrale entrò nell’ampio golfo, so che non arrivò al meglio della navigabilità, il galleggiamento era compromesso. E a Castelsardo finì i suoi giorni.

Cultura

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