Il sole di settembre illumina Bilbao quando alle 13:30 si alza il sipario su quella che doveva
essere la "Clásica Bilbao", undicesima tappa di una Vuelta 2025 che nessuno dimenticherà.
Centosettantasette chilometri di puro veleno basco, sette salite cattive come solo questa terra
sa regalare, un dislivello che morde le gambe già dalla partenza. Jonas Vingegaard indossa la
maglia rossa con appena ventisei secondi su Torstein Træen, trentotto su João Almeida: una
classifica che profuma di battaglia.
Ma già dai primi metri qualcosa stride nell'aria. I corridori si riuniscono, parlano fitto tra loro. Il
clima è già pesante: la situazione della Israel-Premier Tech, la squadra israeliana finita nel
mirino delle proteste per la guerra in Palestina. Mentre la Russia è stata esclusa da ogni
competizione sportiva per via dell’Ucraina, Israele continua a correre nonostante il massacro
di civili palestinesi che insanguina Gaza. È un nodo che il ciclismo non riesce a sciogliere, e
oggi quel nodo si trasformerà in cappio.
La partenza scatta con qualche minuto di ritardo. Sei chilometri di neutralizzazione scorrono
tesi, poi la corsa esplode come sempre accade quando si corre in casa del diavolo. Kelland
O'Brien e Edward Dunbar della Jayco AlUla provano il primo strappo, ma è un valzer che non
convince nessuno. Il ritmo è folle, il gruppo si allunga come una fisarmonica impazzita.
È Mads Pedersen della Lidl-Trek a rompere finalmente gli indugi. Il danese, bestia da corse
dure, strappa via con la sua pedalata quadrata, seguito a ruota da Joel Nicolau della Caja
Rural. Al primo GPM è proprio lo spagnolo a transitare davanti, ma la Visma di Vingegaard
non ha alcuna intenzione di concedere spazio. Il controllo è asfissiante, militare.
Il gruppo si frantuma, si ricompone, si allunga ancora. Marc Soler, Juan Ayuso, Santiago
Buitrago: i nomi scivolano via come perle di un rosario spezzato. Ogni attacco viene
neutralizzato con la precisione di un orologio svizzero. La Visma ha messo in campo la sua
macchina da guerra e non intende fermarla per nessuno.
Ma il destino oggi ha altri piani. Alle 13:44 arriva il primo segnale inquietante: "Corsa ferma! Ci
sono alcune persone in strada". Quattro minuti di sospensione, poi si riparte. È solo l'antipasto
di quello che accadrà.
Quando finalmente una fuga prende corpo, è ancora Pedersen il protagonista. Prima con
Soler e Orluis Aular, poi da solo dopo essere stato ripreso e aver riattaccato. Il danese è un
leone ferito che non vuole arrendersi, ma anche lui finisce nella rete della Visma.
La corsa vive, respira, soffre sui salti di pulce dell'Alto del Vivero. Mikel Landa della Quick-Step
prova l'assolo solitario che sa fare meglio di chiunque altro, ma i problemi alla schiena che lo
tormentano da giorni lo tradiscono proprio quando servono le gambe migliori. Santiago
Buitrago della Bahrain rileva il testimone, vola via con quell'eleganza sudamericana che
trasforma il dolore in poesia.
Ma è sull'ultima salita, l'Alto de Pike, che il copione si ribalta completamente. Tom Pidcock
della Q36.5 scatta con la veemenza del campione olimpico che non ha mai smesso di essere.
Vingegaard lo segue come un'ombra, i due si staccano dal mondo e volano verso quello che
dovrebbe essere il finale più bello della giornata.
Invece, ai meno diciotto chilometri dall'arrivo, cala il sipario con la brutalità di una ghigliottina.
L'annuncio arriva come un pugno nello stomaco: "I tempi verranno presi a 3 chilometri dal
traguardo. Non ci sarà alcun vincitore di tappa". I manifestanti hanno vinto la loro battaglia, ma
hanno ucciso la corsa.
È un precedente pericoloso, devastante. Un manipolo di persone ha il potere di cancellare una
tappa intera, di privare il ciclismo del suo senso più profondo. La protesta contro Israele
diventa una mannaia che colpisce tutti: corridori, organizzatori, spettatori, lo sport stesso,
togliendo importanza al messaggio che i manifestanti stessi vorrebbero lanciare, e portandoli
invece nel torto.
Vingegaard e Pidcock arrivano insieme ai tre chilometri dal traguardo, tagliando un traguardo
che non esiste. Il danese ha guadagnato secondi preziosi su Almeida e sugli altri uomini di
classifica, ma il sapore è amaro come il fiele. Gli abbuoni raccolti durante la giornata - i sei
secondi di Pidcock al GPM, i quattro di Vingegaard - suonano come una beffa.
I corridori vengono dirottati direttamente verso gli autobus delle squadre. La festa è finita prima
di cominciare. Ma Tom Pidcock no, lui non ci sta. Il britannico prosegue, sfida i manifestanti
tenuti oltre le transenne dai militari, la paura. Arriva da solo al vero traguardo di Bilbao, l'unico
ad avere il coraggio di completare quello che aveva iniziato.
È un gesto che vale più di qualsiasi vittoria. In un giorno in cui il ciclismo ha perso la sua
anima, almeno un uomo ha saputo ritrovarla. Le classifiche tarderanno ad arrivare, i distacchi
sono ancora un mistero, ma una cosa è certa: oggi a Bilbao non ha vinto nessuno. Ha perso lo
sport, ha perso il ciclismo, ha perso quella magia che trasforma il dolore delle salite in bellezza
pura.
Vingegaard indosserà ancora la maglia rossa, con un vantaggio probabilmente maggiore sui
suoi rivali. Ma questa sera, negli occhi di chi ama il ciclismo, ci sarà solo il vuoto di una tappa
che doveva essere e non è mai stata. Bilbao aspetterà un altro giorno per incoronare il suo
vincitore. E la Vuelta, ferita nell'orgoglio, dovrà trovare la forza di ripartire domani, sperando
che la strada sia finalmente libera.
Il sole tramonta sui Paesi Baschi, ma questa volta non illumina alcun podio. Solo l'amarezza di
una giornata che il ciclismo non potrà mai dimenticare.
A questo punto la domanda che rimane sospesa nell’aria è: “Le altre squadre faranno
pressione affinché la Israel premier Tech si ritiri dalla corsa?”