C’è un silenzio nuovo nelle case dei ragazzi sardi. Non è quello dello studio o della noia, ma dell’isolamento. Li chiamano Hikikomori, dal giapponese “stare in disparte”. Giovani che si rinchiudono nella propria stanza e smettono di uscire, di vedere amici, di affrontare il mondo. Un fenomeno nato in Giappone ma ormai ben radicato anche in Italia, dove si stimano circa 70 mila casi.
La Sardegna non fa eccezione. Anzi, secondo i dati discussi in un recente convegno tenuto nell’aula del Consiglio Regionale, l’isola sta registrando un aumento preoccupante. Presenti esponenti delle istituzioni, del mondo scolastico e numerosi studenti. Segno che il tema non è più confinato agli studi psicologici, ma è diventato una questione sociale.
“È urgente una presa di coscienza del fenomeno”, ha detto Piero Comandini, presidente del Consiglio Regionale. Ha sottolineato la necessità di “creare una rete autentica di supporto” capace di aiutare le famiglie dei ragazzi coinvolti.
Dietro ogni porta chiusa, spesso, c’è un adolescente che ha smesso di credere nel contatto umano. Il mondo digitale, con le sue promesse di relazioni senza sguardi, ha fatto il resto. Parlano poco, escono ancora meno, e trovano nel web una compagnia che consola ma non cura.
Il problema, come ha ricordato Comandini, non riguarda solo la psicologia: è culturale. Scuole, genitori e istituzioni devono tornare a essere una comunità viva, capace di “bussare” a quelle porte chiuse.
In Giappone, dove tutto è cominciato, li chiamano “i ragazzi delle ombre”. In Sardegna, forse, li abbiamo semplicemente lasciati soli troppo a lungo.