Landini e la politica: referendum, propaganda e ambizioni da premier mancato

Maurizio Landini non ha mai amato le mezze misure. Neppure da sindacalista. Se potesse, sfonderebbe i muri con la voce roca e con la maglietta fuori ordinanza. Ora si aggira per l’Italia come un candidato in campagna elettorale, ma il suo biglietto da visita resta quello di segretario generale della CGIL. Un sindacalista con il piglio da tribuno, che da Olbia a Sassari denuncia: «Un terzo degli italiani non sa nemmeno che ci sono i referendum». È la solita litania contro l’“informazione ufficiale”, ma stavolta suona più simile a un comizio che a una battaglia sindacale.

«Abbiamo ancora 15 giorni per raggiungere il quorum», scandisce Landini a Sassari. E se anche non si raggiungesse, poco male: l’importante è dimostrare, dice lui, «la straordinaria capacità di mobilitazione» della CGIL. Una formula che sembra presa a prestito da chi fa politica da una vita. Perché, a dirla tutta, Landini in politica c’è già da tempo. Senza tessera e senza partito, ma con la pretesa di parlare per conto di chi non ha voce.

Il referendum sull’8 e 9 giugno è la sua occasione. Si vota per abrogare pezzi del Jobs Act, cancellare deroghe ai licenziamenti, limitare i subappalti. Materia da giuslavoristi, resa bandiera di battaglia da chi non ha mai smesso di contestare Renzi e la stagione delle riforme. La CGIL, che nel 2003 aveva osteggiato un referendum simile sull’articolo 18, oggi guida il carro, come se volesse riscattare i silenzi di ieri. E Landini lo sa bene: questo voto vale molto più del suo esito tecnico. È un simbolo, e come tale funziona per misurare consensi e alleanze.

La domanda serpeggia da mesi: Landini si candiderà? Lui non lo dice. Ma lo scrive tra le righe. Lo lascia intuire nel titolo del suo ultimo libro, Un’altra storia, un’autobiografia che sembra più un manifesto. E lo lascia supporre con le sue tappe elettorali dissimulate da assemblee sindacali, i rapporti sempre più fitti con Conte e i Cinque Stelle, le occhiate sospettose al Partito Democratico di Elly Schlein, che in teoria gli sarebbe alleato, ma in pratica gli ruba il ruolo di capopopolo.

La storia non è nuova. Già Sergio Cofferati, Guglielmo Epifani e Susanna Camusso sono transitati dalla CGIL al Parlamento. Ma Landini non sembra volersi accontentare di un seggio e una targa fuori porta. Il suo modello non è il parlamentare diligente, ma il leader che plasma la sinistra a propria immagine. Se riuscirà a portare alle urne anche solo 12 milioni di italiani – lo stesso numero che ha votato per Meloni nel 2022 – potrà andare a Palazzo Chigi a dire: «Valgo quanto voi».

Il suo è un gioco pericoloso. Perché la politica non si fa solo con le piazze, ma con i compromessi. E Landini, di compromessi, ne ha sempre digeriti pochi. Lo si è visto quando ha rotto l’unità sindacale per uno sciopero generale contro Draghi, con motivazioni risibili. O quando, durante la pandemia, ha flirtato pericolosamente con le frange no-pass, mettendo in difficoltà i ministri più vicini alla sua area. È un massimalista che sogna la maggioranza.

Eppure, proprio lui, l’uomo che si è sempre presentato come diverso dai politici, rischia di cadere nella loro trappola. Perché se i referendum non raggiungeranno il quorum, il boomerang sarà pesante. E se invece lo raggiungeranno, sarà difficile per Landini limitarsi a dire: “Abbiamo vinto”. La tentazione di capitalizzare il risultato sarà fortissima, e i suoi interlocutori lo sanno.

Nel PD lo temono più che stimarlo. In pubblico si affiancano a lui nelle manifestazioni, in privato lo considerano un corpo estraneo, un sindacalista che pensa da premier ma non sa fare squadra. Schlein cerca di contenerlo, abbracciando alcuni dei suoi temi ma senza affidargli la bandiera. Conte invece lo corteggia apertamente: stesso populismo d’opposizione, stesso tono perentorio, stessa avversione per Bruxelles e per “l’Occidente che ci comanda”.

Alla fine, il problema di Landini sarà questo: a furia di fare il leader fuori dai partiti, rischia di trovarsi fuori anche dai giochi. La sua parabola ricorda quella di chi, nella sinistra radicale, ha sempre preferito perdere con orgoglio piuttosto che vincere a compromesso. Ma se davvero pensa di contendere a Meloni il consenso degli italiani, dovrà fare un passo che finora ha evitato: sporcarsi le mani con la politica vera.

E allora sì, magari alle elezioni del 2027 lo vedremo in campo. Con un partito suo, o candidato di bandiera, magari in una lista civica travestita da movimento popolare. Il sindacato, a quel punto, sarà solo un ricordo. E le piazze gremite, un’illusione. Perché tra i microfoni e i ministeri c’è un abisso. E per attraversarlo non bastano i comizi, servono i voti veri. E la pazienza di chi sa che il potere, quando arriva, non si urla. Si governa.

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