Ogni anno, l'11 settembre, ci troviamo di fronte alla solita pioggia di commemorazioni, cerimonie e speciali televisivi, come se il tempo si fosse fermato quel giorno del 2001. Ci sono i tributi, gli omaggi, le foto di Ground Zero, le immagini delle Torri Gemelle che crollano, ormai cristallizzate nella memoria collettiva. Ma dietro a tutta questa "mielosa" celebrazione, viene da chiedersi: è davvero utile tutto questo? È veramente necessario ripetere la stessa narrazione all'infinito?
L’11 settembre è diventato, soprattutto negli Stati Uniti, un simbolo di unità nazionale, di resilienza, di una presunta "guerra giusta". Ma a ventitré anni di distanza, viene il dubbio che la retorica abbia superato la riflessione. Come notano alcuni critici, troppa della narrazione attorno a quell'evento è diventata un’occasione mancata per un'analisi più profonda su quanto accaduto dopo.
Il vero impatto dell’11 settembre non si misura solo con le vittime di quel giorno, ma con le guerre, le leggi di emergenza, le torture, e le libertà sacrificate in nome della "sicurezza".
Eppure, la tragedia ha anche lasciato un'eredità di domande scomode. Come osservava Noam Chomsky, l’11 settembre è stato utilizzato per giustificare politiche che altrimenti sarebbero state impensabili, dall’invasione dell’Iraq alla creazione di Guantanamo. Si è persa l'occasione di cercare davvero una risposta, non solo in termini di vendetta, ma di comprensione delle cause profonde di quell'attacco. Bin Laden, catturato e ucciso anni dopo, avrebbe potuto rappresentare un'opportunità di confronto legale e storico, ma si è preferito chiudere il capitolo con una pallottola e una sepoltura in mare.
E qui torniamo alla riflessione: quanto ci serve davvero continuare a commemorare l’11 settembre come un trauma eterno? Forse, più che ripetere le stesse storie, dovremmo cominciare a parlare delle lezioni non imparate, delle decisioni prese sull'onda del terrore, delle ferite che l’America stessa ha inflitto, sia al mondo che a se stessa.