?In un'epoca in cui il dibattito pubblico è spesso dominato dalla paura e dalla retorica della sicurezza, la questione dei diritti delle persone affette da disturbi mentali rischia di scivolare nell'ombra. Il clima di tensione sociale, esacerbato da una cronaca che amplifica i casi di violenza, ha portato a una pericolosa regressione culturale: quella che tende a criminalizzare il disagio mentale, anziché affrontarlo come un problema di salute pubblica e di dignità umana.
?La psicosi, in particolare, è diventata un bersaglio facile. È vista non più come una patologia complessa che richiede cure specialistiche, ma come una potenziale minaccia sociale, un fattore di rischio che giustifica misure repressive. Questa visione distorta ha conseguenze drammatiche. Spesso, invece di trovare rifugio in strutture adeguate e ricevere un supporto terapeutico, i malati si trovano a fronteggiare l'isolamento, il pregiudizio e, in troppi casi, la reclusione.
?La logica del carcere come soluzione per la malattia mentale è un fallimento etico e sociale. La prigione non cura, ma reprime; non integra, ma emargina. Per una persona affetta da psicosi, l'ambiente carcerario può essere un vero e proprio incubo, che acuisce la sofferenza e può portare a esiti tragici, come il suicidio. Dimenticare che dietro la malattia c'è sempre un essere umano, con i suoi diritti inalienabili, è un grave passo indietro per la nostra civiltà.
?È necessario un cambio di paradigma. La risposta al disagio mentale non può essere la repressione, ma la cura, l'accoglienza e l'integrazione. Investire in servizi di salute mentale accessibili, formare il personale sanitario e contrastare la disinformazione sono passi essenziali per costruire una società che non abbandoni i suoi membri più fragili. Solo così potremo dimostrare di essere una comunità matura, che misura il proprio grado di civiltà non dalla forza con cui punisce, ma dalla cura con cui protegge.