Le notizie da Gaza dominano le prime pagine dei giornali e i dibattiti pubblici, monopolizzando l'attenzione e l'indignazione globale. È giusto e necessario che ci si preoccupi per una crisi umanitaria di tale portata. Tuttavia, questo focus quasi esclusivo solleva un interrogativo scomodo e fondamentale: perché il mondo sembra ignorare altre, e spesso peggiori, tragedie che si consumano in altre parti del globo?
?Mentre gli occhi di tutti sono puntati sul Medio Oriente, in altre regioni si sta consumando un'indicibile sofferenza. Il Congo, per esempio, è teatro di uno dei più grandi e sanguinosi conflitti moderni, con milioni di profughi e centinaia di migliaia di morti. Analogamente, in Sudan, nello Yemen e in Bangladesh si verificano crisi umanitarie di proporzioni catastrofiche. E se guardiamo alla schiavitù, una piaga che pensavamo fosse un lontano ricordo, scopriamo che milioni di persone, come in Cina, vivono in condizioni disumane.
Questi conflitti, questi genocidi, queste sofferenze passano spesso inosservati, relegati a brevi menzioni nelle sezioni di cronaca internazionale.
?Non si tratta di sminuire la sofferenza di un popolo per evidenziare quella di un altro. Ogni vita persa è una tragedia che merita la nostra compassione e il nostro intervento. Ma il nostro dovere, come esseri umani e come società, è quello di riconoscere e agire contro tutte le ingiustizie, ovunque si verifichino.
?La Sardegna, terra di pace e poligoni di guerra
?Il paradosso dell'attenzione selettiva si riflette anche in un contesto più vicino a noi: quello della Sardegna. I sardi si sono spesso definiti un popolo pacifista, fiero delle proprie tradizioni di accoglienza e resistenza a ogni forma di conflitto. Eppure, proprio in questa terra, avvengono da decenni esercitazioni militari che la trasformano in uno dei poligoni più vasti d'Europa.
?La contraddizione è stridente. Come può un popolo che si professa pacifista tollerare che una parte significativa del suo territorio venga usata per simulare la guerra? La risposta non è semplice. Spesso, la questione viene vista come un problema economico, con i benefici derivanti dalla presenza militare che in qualche modo giustificherebbero l'impatto ambientale e sociale. Ma non è solo una questione di soldi; è una questione politica e identitaria.
Il silenzio e l'accettazione passiva di questa realtà suggeriscono una profonda spaccatura tra ciò che i sardi dicono di essere e ciò che permettono che accada nella loro terra.
?Questo paradosso rivela un problema politico che va ben oltre la partecipazione alle guerre globali. Rivela l'incapacità di una comunità di tradurre i propri valori in azioni concrete. Mentre ci indigniamo giustamente per le sofferenze altrui in luoghi lontani, rischiamo di chiudere gli occhi su ciò che accade nel nostro cortile di casa. Se i sardi vogliono essere veramente un popolo pacifista, devono prima di tutto lottare per la pace nella loro stessa isola.
?Riflettere su questo significa non solo ampliare la nostra prospettiva sulle crisi globali, ma anche mettere in discussione le nostre stesse convinzioni. È il momento di esigere coerenza: un'attenzione universale per tutte le guerre e un impegno tangibile per la pace, a partire da casa nostra.