Gli Stati Uniti hanno pubblicato la nuova strategia di sicurezza nazionale. La Casa Bianca di Donald Trump annuncia il ritiro da alcuni teatri globali, la centralità dell’America Latina, il controllo delle migrazioni, la necessità di contenere l’espansione della NATO e di trovare una stabilità con la Russia. Prevedibile. Inevitabile. Persino dovuto.
Per capire ciò che accade bisogna capovolgere la cornice narrativa con cui in Europa leggiamo l’America da decenni: non sono i presidenti a modellare l’impero. È l’impero che li produce. La causalità corre in direzione opposta rispetto alla nostra tradizione culturale. Gli Stati Uniti sono un organismo vivente che utilizza la politica come strumento, non come finestra sulla volontà popolare. La democrazia americana è, innanzitutto, la legittimazione periodica della potenza imperiale. Trump è un risultato. Non un’eccezione.
Gli Stati Uniti stanno entrando nella fase più complessa dalla fine della Guerra Fredda. L’Indo-Pacifico si prepara a essere il grande teatro del confronto con la Cina. La geopolitica americana obbliga Washington a concentrare risorse sull’unica potenza in grado di mettere in discussione la supremazia globale statunitense. Per farlo, l’impero deve ridurre gli impegni nei teatri periferici. Rendere secondari i fronti che non incidono più direttamente sulla sua sopravvivenza. Ristrutturare la sua architettura globale. E soprattutto costringere gli alleati – cioè noi – a partecipare come soci tributari. È la legge universale degli imperi: chi beneficia della protezione deve contribuire.
Roma lo impose alle sue province quando la pressione dei Parti aumentò ai confini orientali. Lungo il Danubio, l’Impero romano chiedeva tributi e uomini per sostenere le legioni. Non era una concessione: era il prezzo dell’appartenenza.
Gli imperi sono comunità gerarchiche e funzionali. Non sono sindacati di Stati sovrani. L’Europa lo ha dimenticato.
Da settant’anni il Vecchio Continente vive nella più grande anomalia strategica della storia: essere parte integrante di un impero senza percepirsi tale. Alimentiamo l’illusione di essere partner paritari, convinti dagli americani che la Storia fosse finita rendendoci senescenti. Parliamo di “alleanza”, “valori comuni”, “multilateralismo”, come se l’architettura occidentale fosse una cooperativa. In realtà siamo un protettorato esteso, la pietra preziosa dell’impero, territorio di retrovia, centro logistico, vetrina civilizzatrice.
Ma ora gli Stati Uniti hanno bisogno di altro. Hanno bisogno di liberare mezzi e forze per il confronto con la Cina. Hanno bisogno che l’Europa si sistemi da sola, almeno in parte. Hanno bisogno che il costo della difesa continentale – oggi quasi interamente americano – venga trasferito agli europei.
Da qui i dazi, le pressioni commerciali, il ridimensionamento della NATO, la ricerca di un accordo rapido in Ucraina.
Tutte mosse che molti europei attribuiscono al carattere di Trump, ignorando che sono identiche, nella sostanza, alle linee emerse già sotto Obama e Biden. Perché non sono politiche presidenziali: sono esigenze imperiali.
Gli Stati Uniti riducono il loro ruolo globale non per capriccio, ma per necessità: la Repubblica Popolare Cinese è il primo avversario sistemico della loro storia. E la storia non concede pause.
Il nuovo documento strategico americano afferma che la NATO non può essere “alleanza in perpetua espansione”. È un eufemismo che dice molto: Washington non vuole farsi trascinare in conflitti marginali rispetto alla sfida indo-pacifica.
L’Europa orientale deve trovare i propri equilibri. L’Ucraina deve scendere a patti. Il fronte russo deve essere congelato.
In parallelo, l’impero si riposiziona nel suo cortile di casa: l’America Latina. Una scelta logica. Chi vuole dominare il mondo deve prima dominare il proprio emisfero. Valeva per Roma nel Mediterraneo. Vale oggi per Washington nelle Americhe. Noi europei, però, siamo ancora convinti di vivere in un mondo governato dal diritto, dal negoziato, dal soft power. Un mondo che non esiste più, anzi, che non è mai veramente esistito.
Quando il confronto con Pechino entrerà nella fase più tesa – e accadrà, perché la struttura del sistema internazionale lo richiede – gli Stati Uniti chiederanno agli alleati europei di contribuire. Non si tratta di volontariato strategico. È l’inevitabile destino delle potenze satelliti. L’Europa dovrà fornire: risorse economiche; capacità militari; stabilità politica interna; controllo del proprio vicinato (Mediterraneo, Balcani, Sahel).
Saremo utili se, e solo se, riusciremo a liberarci della nostra dipendenza strutturale. Un impero non può permettersi alleati fragili. Può tutelarli, ma non sostituirli all’infinito. La guerra indo-pacifica non è un’ipotesi. È un percorso. E in quel percorso l’Europa avrà il ruolo di tributaria evoluta, non di partner strategico. È la natura degli imperi. Le variabili cambiano. La struttura no.
L’America non sta cambiando perché Trump lo vuole. Trump è ciò che l’America, oggi, necessita che sia. E noi europei siamo ciò che l’impero richiede: una periferia ricca che deve finalmente pagare la propria protezione.