Italia, stipendi fermi e carrelli vuoti: la fotografia di un Paese immobile

Gli stipendi italiani sono come scarpe vecchie lasciate sul marciapiede. Nessuno li raccoglie. Intorno tutto cresce: case, affitti, bollette, cibo. L’unica cosa che resta immobile è quella cifra scritta in busta paga.

Cinquanta euro, cinque anni fa, riempivano un carrello. Oggi bastano appena per una busta. L’olio è passato da 7 a 13 euro. La pasta sfonda i 3 euro al chilo. La benzina è ormai un lusso. Non è solo inflazione: il guaio viene da lontano, come pioggia sottile che bagna piano, senza che te ne accorgi.

I giovani rischiano di essere più poveri dei loro nonni. In trent’anni, Olanda, Francia e Germania hanno visto crescere i salari del 30%. Da noi sono scesi del 2,9%. Quasi metà dei ragazzi sotto i 35 anni porta a casa meno di mille euro al mese. E con mille euro, a Milano o a Roma, ti paghi appena una stanza.

Gli economisti liquidano la questione con una parola: produttività. Tradotto: quanto produce un lavoratore in un’ora. Noi poco. E così i salari restano inchiodati. Le aziende, invece di investire in ricerca e innovazione, scelgono la scorciatoia: pagare meno chi lavora. Risultato: stipendi bassi, consumi bassi, produttività ferma. Un cane che si morde la coda.

Dal 2008 ad oggi i salari reali sono calati del 9%. In Francia e Germania sono saliti del 14%. Un dipendente medio italiano guadagna 24mila euro l’anno. Un autonomo dichiara quasi 70mila. La forbice è tutta lì.

Il sistema dei contratti collettivi si trascina con ritardi di anni. I sindacati, un tempo protagonisti, oggi sembrano dinosauri in via d’estinzione. Intanto le aziende distribuiscono miliardi di dividendi. Ma la torta non viene divisa con chi lavora.

Il paradosso è evidente: l’Italia è tra le prime dieci economie del mondo. Ma nelle tasche dei cittadini quella ricchezza non arriva mai. Il PIL brilla sulla carta, ma la vita reale resta grigia. Siamo un paese che risparmia per paura, che blocca se stesso accumulando soldi sotto il materasso.

La struttura industriale è fatta di microimprese. Il 95% ha meno di dieci dipendenti. Piccole aziende significano piccoli salari. Eppure l’Italia produce eccellenza, dal tessile alla meccanica, dall’arredo al lusso. Ma in un mercato globale dove i cinesi producono a costi stracciati, la scelta è tra due strade: puntare sulla qualità o abbassare i salari. Troppo spesso si sceglie la seconda.

E allora restiamo immobili, imbalsamati. Con un ascensore sociale fermo: chi nasce povero resta povero. Le soluzioni? La politica balbetta: destra che promette meno tasse, sinistra che invoca il salario minimo. Compromessi da campagna elettorale, non risposte.

Il futuro, se c’è, sta nelle competenze. Formazione, tecnologia, innovazione. Bisogna tornare a rischiare, mescolare esperienza e idee nuove. Perché il tempo non aspetta. E se l’Italia non cambia, resterà quel che è oggi: un Paese ricco sulla carta, ma povero nella vita quotidiana.

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