C’è un gruppo Facebook che si chiama “Mia moglie”. Dentro ci sono trentamila uomini che si scambiano foto delle proprie compagne. Non parliamo di selfie maliziosi inviati per gioco, ma di immagini rubate, scatti presi di nascosto, momenti intimi trasformati in merce da esibire. Donne inconsapevoli, catapultate in una vetrina digitale senza che abbiano dato il minimo consenso.
Le vittime non hanno colpa: nessuna sapeva, nessuna era complice. Eppure la questione non si risolve con il solito ritornello “uomini orchi, donne martiri”. Perché il punto non è solo denunciare il gesto, ma chiedersi: com’è possibile che il proprio partner diventi il carnefice della fiducia? Scegliere con chi si sta non è mai un dettaglio, e il problema è relazionale prima che criminale. Non basta indignarsi, bisogna imparare a riconoscere i segnali, a chiedersi quale uomo si ha accanto.
Viene spontaneo chiedere agli uomini: che premio vi portate a casa? Mostrare agli altri le parti intime della moglie addormentata, la compagna in costume, la fidanzata col seno scoperto: che vittoria è? Uno scambio da bar, un campionato di chi ce l’ha più bella o più disinibita. Una gara meschina dove il podio vale meno di una risata stonata.
Certo, la legge punisce il revenge porn. Ma qui il codice penale arriva sempre dopo, quando il danno è fatto. Il vero nodo è culturale: un’idea tossica di maschilità che si costruisce mostrando, possedendo, esibendo. E, dall’altra parte, un’incapacità di molte donne di riconoscere per tempo i rapporti malati, quelli dove l’amore si trasforma in controllo e il rispetto in esibizione.
Il tradimento peggiore non è quello del letto, ma quello della fiducia. Perché scoprire di essere finita in un gruppo del genere significa capire che il nemico non era fuori casa, ma dentro. E che la complicità più intima è stata barattata per un pugno di commenti volgari. Questo non è sesso. È pornografia dell’inganno.