Ogni anno, puntuale come le rondini di primavera o le zanzare d’estate, torna lei: la maturità. L’eterno ritorno dell’uguale, direbbe Nietzsche, e avrebbe ragione. È un rituale collettivo che si ripete da generazioni, sempre uguale e sempre diverso, come il mare sotto un cielo che cambia. Stavolta tocca a 12.378 studenti sardi, sedersi sui banchi che presto lasceranno, con la mano che stringe la penna e lo sguardo che finge calma ma rivela battiti accelerati. È l’ultima notte prima degli esami, e anche questo, ormai, è quasi un genere letterario.
Ma la scuola non è più quella dei nostri ricordi, e neppure lo è la società. Le aule si sono svuotate di certezze, riempite di dispositivi elettronici e tagli. Le strutture scricchiolano, i docenti arrancano tra stipendi indegni e burocrazie inutili, mentre le famiglie si rassegnano a una scuola che sempre più spesso è lasciata sola. L’emergenza Covid, che pure ci aveva fatto illudere in una rifondazione, ha invece lasciato dietro di sé solo stanchezza e spazi che odorano di disinfettante e rimpianti. Eppure, anche in mezzo al disincanto, ogni anno si ripresenta quel barlume di speranza, quella sensazione che in fondo qualcosa possa ancora cambiare, almeno nei cuori giovani.
I ragazzi affrontano la prima prova: l’italiano. È il compito per eccellenza, il più temuto e il più citato, il più discusso nei bar e sui giornali. E le tracce di quest’anno sono un piccolo spaccato dell’Italia che fatica a capire sé stessa: Pasolini, con il suo sguardo profetico e rabbioso; Tomasi di Lampedusa, con la malinconia del Gattopardo e la sua eterna massima — che tutto cambi purché nulla cambi. Poi il giudice Borsellino, che parla ai giovani come a un testamento. Indignazione e social, rispetto e ambiente: parole chiave di un’epoca che corre veloce ma inciampa spesso sulla soglia della verità.
Si dice che molti adulti sognino ancora, di notte, l’esame di maturità. Come se fosse rimasto un conto in sospeso. Perché lì, in quel giugno lontano, si era messo alla prova non solo il sapere, ma il proprio modo di stare al mondo. E si scopre, con amarezza, che forse non si è mai davvero pronti. Si è sempre un po’ in ritardo, un po’ impreparati, un po’ persi. È un sogno che ritorna perché è una porta che non abbiamo mai del tutto chiuso.
Nel frattempo, i dati ci ricordano che la Sardegna guida una classifica amara: quella dei non ammessi, con un 7,1% che grida disagio e solitudine. Le regioni più povere, meno centrali, meno assistite, pagano sempre il prezzo più alto. Ed è lì che la scuola dovrebbe fare di più, dovrebbe essere argine e trampolino. Invece resta spesso un recinto mal custodito, dove le buone volontà si scontrano con l’indifferenza delle istituzioni.
Ma nonostante tutto, ogni maturità è anche un nuovo inizio. È la frattura tra ciò che si è stati e ciò che si potrà essere. È la resa dei conti tra sogni e realtà. Alcuni usciranno con un voto alto e nessuna direzione, altri con un voto mediocre ma un cuore che brucia di idee. E se la scuola ha ancora un senso, è in quella scintilla che nasce tra la parola “rispetto” e il coraggio di indignarsi, tra la voce di un giudice ucciso dalla mafia e la musica che ogni studente ascolta la sera, quando si chiude nella sua stanza a immaginare il futuro.
Perché poi, diciamolo: rifaremmo tutti l’esame di maturità, non per la prova in sé, ma per ciò che rappresentava. Per quella sensazione – unica – di essere sul crinale. Con le paure da ragazzi e la voglia di diventare grandi. Con la penna in mano, il cuore in gola e una sola certezza: che tutto stava per cominciare. E anche oggi, sotto cieli più incerti, quella sensazione ritorna. Sempre.