Filippo Turetta, le motivazioni dell’ergastolo: «Venti minuti in cui Giulia capì che stava per morire»

La Corte d’Assise di Venezia ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo per l’omicidio di Giulia Cecchettin. Nessuna attenuante, nessuna giustificazione: il giudizio è netto. Un gesto spinto da «motivi vili e spregevoli», eseguito con «efferatezza», e seguito da un comportamento lucido e calcolato nel tentativo di nascondere il corpo della vittima.

Nella ricostruzione dei giudici, l’omicidio è durato circa venti minuti. Un tempo sufficiente, scrive la Corte, perché Giulia si rendesse conto della propria fine imminente. «Un’aggressione che – secondo i magistrati – è maturata in un contesto di intolleranza nei confronti della libertà della ragazza, della sua autonomia decisionale, anche nei gesti più quotidiani». Non vi è però, specificano i giudici, «evidenza sufficiente che Turetta abbia prolungato deliberatamente quel tormento».

La sentenza, letta il 3 dicembre 2024, punta il dito anche sulla mancanza di sincerità del condannato: l’uomo ha confessato solo quegli elementi già provati dalle indagini, mentre in precedenza aveva mentito su dettagli cruciali. In carcere, durante le conversazioni con i genitori, Turetta ha dimostrato consapevolezza del quadro probatorio, ma ha scelto di non collaborare fino a che le evidenze non sono divenute schiaccianti.

Dopo il delitto, la sua condotta è apparsa fredda e metodica. La scelta del luogo dell’occultamento, le modalità con cui è stato abbandonato il cadavere, e il tentativo di ritardarne il ritrovamento, sono elementi che la Corte ha ritenuto fondamentali nel riconoscere la piena coscienza del crimine commesso.

Il caso ha scosso l’opinione pubblica nazionale, diventando simbolo di una violenza che non è solo fisica, ma affonda le radici in un possesso malato, in un rifiuto della libertà femminile, come emerso più volte nel dibattimento.

Con il deposito delle motivazioni, il procedimento giudiziario entra ora in una nuova fase. Ma resta, intatta, la tragedia di una giovane vita spezzata, e l’interrogativo sulla capacità di riconoscere in tempo i segnali di una violenza che troppo spesso si consuma nel silenzio.

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