Geopolitica e il coraggio di pensare: Dario Fabbri contro l'indifferenza intellettuale

  Dario Fabbri rappresenta una figura controversa nel panorama intellettuale italiano. Stimato da una parte per la sua capacità di sintesi e analisi geopolitica, bollato dall’altra come “non accademico”, un autodidatta troppo popolare per essere preso sul serio dagli ambienti colti. Eppure, la sua ascesa e la sua capacità di catalizzare il dibattito non possono essere liquidate con una semplice etichetta di populismo o, peggio, di superficialità. 

  La realtà è che Fabbri sfida il conformismo intellettuale di un paese spesso impantanato nel culto sterile del titolo accademico e nella mediocrità di un pensiero autoreferenziale. La geopolitica di Fabbri non è una scienza esatta, ma non pretende di esserlo. Al contrario, egli si muove consapevolmente in un terreno fluido, dove le dinamiche dei popoli e dei territori interagiscono in modi complessi, spesso guidati da fattori non immediatamente razionalizzabili. È un approccio che molti liquidano come eccessivamente “psicologico”, ma che trova radici profonde nella tradizione geopolitica europea, quella che Fabbri stesso richiama, dai teorici tedeschi dell’Ottocento a Kjellén e Haushofer.

  La sua intuizione di base, che i popoli abbiano tratti psicologici collettivi intelligibili e che questi influenzino il comportamento geopolitico, può essere criticata, ma è una critica che deve entrare nel merito. Qui sta il problema: molti critici di Fabbri non contestano le sue idee, ma si limitano a un’aggressione superficiale, spesso personalistica, che non fa che rivelare la loro incapacità di proporre alternative. In un paese che ha dato i natali a Gramsci, è paradossale osservare come la figura del critico disimpegnato, tanto odiata dal pensatore sardo, sia oggi dominante. Gramsci disprezzava gli indifferenti, coloro che si limitavano a osservare senza prendere posizione, senza sporcarsi le mani nel tentativo di comprendere e agire sul mondo. I detrattori di Fabbri incarnano proprio questa indifferenza: criticano, ma non costruiscono. Attaccano, ma non propongono. Si rifugiano in un moralismo sterile o in un ambientalismo da salotto, incapaci di offrire una visione strutturata o una teoria alternativa. 

  Questo vuoto di pensiero è il vero nemico di chiunque voglia approfondire e innovare, e Fabbri, con tutti i suoi limiti, rappresenta una voce che tenta di rompere questo schema. È significativo che Fabbri abbia citato Sassari come esempio di una città che, dopo aver espresso figure di spicco per l’establishment italiano, si sia adagiata su un declino tanto culturale quanto sociale. La Sardegna, da terra di grandi intellettuali e innovatori, rischia di trasformarsi in un’isola dimenticata, non tanto per mancanza di talento, quanto per la sua incapacità di alimentare un dibattito vivo, autentico e critico.

  Anche in questo, Fabbri ha messo il dito nella piaga: ci sono terre e popoli che si compiacciono del loro passato, ma non sanno proiettarsi nel futuro. È un problema che va oltre Sassari e tocca l’intera nazione, dove il conformismo intellettuale soffoca il pensiero critico e l’innovazione. L’idea di Fabbri che i popoli siano paragonabili a individui, con una psicologia collettiva influenzata dalla geografia, è una provocazione che va oltre i confini della geopolitica tradizionale. La sua capacità di sintetizzare l’identità di una nazione in pochi tratti distintivi, che siano l’insicurezza paranoica dei russi o l’arroganza intellettuale dei francesi, può sembrare semplicistica, ma ha il merito di mettere in discussione le categorie consolidate. Chi lo critica per questo dovrebbe quantomeno interrogarsi sul perché tali tratti, per quanto contestabili, sembrano spiegare così bene certi comportamenti storici e politici. 

  Il fatto che Fabbri non sia un accademico nel senso tradizionale è spesso usato come argomento contro di lui. Ma cosa significa, davvero, essere “autorizzati” a parlare di geopolitica? Il sapere non appartiene a chi detiene un titolo, ma a chi lo coltiva. Fabbri ha costruito la sua carriera con anni di studio, conferenze, dibattiti, approfondimenti. Può essere criticato per le sue idee, ma non per la sua dedizione. Chi lo attacca sulla base del titolo mostra non solo una scarsa comprensione del valore del pensiero, ma anche una pericolosa tendenza al classismo intellettuale. Alla base dell’aggressione a Fabbri c’è una guerra culturale più ampia. È la stessa che colpisce chiunque tenti di proporre un pensiero divergente in un panorama intellettuale dominato da conformismo e superficialità. Fabbri diventa un bersaglio non per i suoi errori, ma per il semplice fatto di sfidare l’ordine costituito, di proporre una visione che richiede impegno e riflessione per essere compresa e, eventualmente, contestata. In un’epoca in cui l’opinione ha sostituito il pensiero e il dibattito si riduce a uno scambio di insulti, chi tenta di scavare più a fondo è visto come una minaccia. 

  Criticare è facile. Distruggere lo è ancora di più. Ma costruire un pensiero, una visione, una teoria, richiede uno sforzo che pochi sono disposti a compiere. Dario Fabbri non è perfetto, ma rappresenta un esempio di come si possa affrontare il caos del mondo con un pensiero strutturato, che piaccia o meno. I suoi detrattori, invece, non fanno che dimostrare ciò che manca al nostro tempo: il coraggio di pensare, di proporre, di costruire. Se vogliamo evitare di cadere nell’indifferenza che Gramsci tanto disprezzava, dobbiamo abbandonare il cinismo sterile e riscoprire il valore del dialogo e del confronto. Non per difendere Fabbri, ma per difendere noi stessi.

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