Nella cornice dell'isola che ha visto nascere imperi e cadere dominazioni, il 4 novembre ha assunto i contorni di una scena teatrale dove protagonisti e comparse hanno recitato il loro atto annuale di memoria e onore verso le Forze Armate.
Il presidente sardo, Solinas, ha innalzato il calice in onore dei caduti, sotto lo sguardo di Mattarella e la figura imponente di Crosetto, simboli di un'Italia che intreccia le radici del passato con i fili tesi del presente.
La spesa notevole per l'accoglienza dei VIP ha scatenato l'ironia di chi osserva il bilancio con l'occhio del rigore contabile piuttosto che con quello dell'ammirazione patriottica. Questi sono i tempi in cui la monetizzazione del decoro si scontra con la sacralità del ricordo.
In un angolo più remoto, il pacifismo ha schierato le sue proteste, meno visibili ma non per questo meno audibili, ricordando che ogni moneta spesa per le armi potrebbe essere un investimento in pace. Tra le righe di questo scenario, c'è la Sardegna, terra di frontiera, che da sempre guarda al resto del mondo con la consapevolezza di chi ha molto da offrire e niente da perdere.
La questione, allora, si dipana in una riflessione più ampia: come bilanciamo la celebrazione del coraggio e del sacrificio con il bisogno impellente di giustizia sociale e di pace? Come armonizziamo il riconoscimento dovuto ai nostri militari con la saggezza di investire in un futuro dove le armi sono solo museali ricordi di un'epoca superata?
In questo dialogo tra memoria e progresso, la Festa delle Forze Armate diventa un microcosmo di dibattito nazionale, un momento in cui le spade si incrociano con le penne e i bilanci. E noi Sardi, custodi di un'eredità antica quanto il mare che ci circonda, siamo chiamati a riflettere sull'eredità che lasceremo. Sarà un'eredità di casse piene e cuori vuoti, o di memorie onorate e di un futuro costruito con la pazienza di chi sa che le migliori battaglie sono quelle vinte senza sparare un colpo?