La tregua a Gaza è un ossimoro. Esiste solo nelle dichiarazioni dei portavoce e nei comunicati che odorano di sala stampa, non di sabbia e sangue. Benjamin Netanyahu ha ordinato nuovi raid su Rafah, accusando Hamas di aver violato l’accordo dopo la consegna dei resti di un ostaggio già recuperato in precedenza. È l’ennesimo paradosso di una guerra che da un anno vive di tregue rotte, sospensioni illusorie e diplomazie che si fingono onnipotenti per non confessare la propria impotenza.
L’ex generale Yaakov Amidror, intervistato da Gabriella Colarusso, si è mostrato cauto: “Non credo che la tregua salterà, ma la parte più difficile deve ancora arrivare. Se Hamas non accetta di disarmarsi, è possibile che la guerra riprenda.” Parole che tradiscono il vero stato delle cose: la tregua è già saltata, solo che nessuno vuole essere il primo a dirlo.
Per comprendere questo presente sfilacciato, occorre tornare al piano Trump per Gaza — formalmente intitolato al tycoon di New York, come se ne avesse scritto una riga o avesse mai afferrato il nodo mediorientale. Quel piano, redatto più dal Pentagono che dallo Studio Ovale, ruota attorno a tre assi e una gigantesca assenza.
Il primo: sconfiggere Hamas a tavolino, non sul campo. Un invito all’abdicazione politica, sotto minaccia di isolamento eterno, senza che la milizia sia stata davvero battuta. Il secondo: frenare Israele attraverso una “Forza di stabilizzazione” che raccolga improbabili alleati — turchi, sauditi, pakistani, egiziani — accomunati dal desiderio di avere un fazzoletto di Striscia da amministrare in funzione antisraeliana. Il terzo: la presenza permanente dell’esercito israeliano a Gaza, ufficialmente per garantire sicurezza, in realtà per mantenere il controllo del territorio, almeno nella parte settentrionale.
Poi, il vuoto: nessuno rappresenta i palestinesi. Con Hamas teoricamente estromesso e l’Autorità Nazionale Palestinese delegittimata, non resta che un silenzio politico popolato di macerie. Il paradosso è che il cosiddetto “Piano Trump” nasce da un atto d’insubordinazione israeliana. Il 9 settembre scorso, Israele ha colpito in territorio qatariota una delegazione politica di Hamas che stava discutendo con mediatori arabi un’agenda fissata dagli Stati Uniti. L’attacco è avvenuto a un soffio dalla base di Al Udeid, quartier generale del Comando Centrale del Pentagono. Troppo vicino, troppo audace.
Washington ha reagito redigendo un piano di contenimento: inserire nella Striscia i nemici di Israele, costringerlo alla prudenza. Da qui l’idea di coinvolgere Turchia, Qatar, Pakistan e Arabia Saudita, quest’ultima ormai sotto l’ombrello nucleare di Islamabad. Tutti dentro Gaza, per toglierla dalle mani di Gerusalemme.
I firmatari? Turchia e Qatar, più l’Egitto che ha ospitato i colloqui. Mancava, ovviamente, Israele. Ora la partita si gioca su un piano quasi teatrale. Hamas può fingere di disarmarsi — sotto consiglio di Ankara e Doha — per rientrare nella Striscia con l’avallo dei nuovi “pacificatori”. Oppure rifiutare la finzione e riaccendere la guerra. Entrambe le strade conducono alla medesima conclusione: Gaza resterà commissariata da potenze straniere e da eserciti ostili, ognuno con la propria agenda.
Netanyahu, nel frattempo, sbandiera vittorie e tregue come trofei di carta, perché il suo potere interno dipende dalla guerra stessa. Washington recita la parte del mediatore, ma teme che Israele possa trascinarla in un altro conflitto mediorientale, stavolta con gli attori scambiati: non più gli americani a sostenere Israele, ma Israele a mettere in scacco gli americani.
In questa farsa geopolitica nessuno crede davvero alla pace. Tutti recitano: Hamas il resistente, Netanyahu il difensore, il Pentagono il garante. Nel mezzo, due milioni di abitanti stipati in una Striscia che assomiglia più a un laboratorio che a un territorio. Il resto lo decideranno i droni e i dossier. Per ora, la tregua è un’interpunzione tra un bombardamento e l’altro. Un respiro breve nel racconto infinito di una guerra che non sa più come giustificarsi.