La geopolitica, quella reale, non si scrive nelle prime pagine né si narra dai salotti televisivi. Eppure, c’è chi si ostina a cercare il colpevole perfetto, anzi la colpevole, convinto che sia Giorgia Meloni a manovrare ogni ingranaggio del sistema anche quelli della liberazione della giornalista Cecilia Sala. Ma la realtà, come spesso accade, non è quella che ci viene raccontata.
Le trattative non erano di Meloni, bensì degli apparati. Quegli stessi apparati che operano lontano dai riflettori, nel silenzio delle stanze dove la politica vera si fa e non si vende.
I compagni di sinistra gongolavano, certi che il caso della giornalista Cecilia Sala sarebbe stato un fallimento per il governo. Il loro sport preferito, ormai, non è più vincere elezioni, ma profetizzare disastri per chi le ha vinte. Michele Santoro, ospite a DiMartedì, tuonava che la Sala non sarebbe rientrata, accusando l’esecutivo di negligenza e incompetenza. Peccato che poche ore dopo quelle stesse profezie si siano trasformate in un imbarazzante boomerang: la giornalista è stata liberata e i gufi sono rimasti senza argomenti.
Santoro, però, non si è fermato. Il suo bersaglio successivo è stato il viaggio lampo della premier da Donald Trump. «Sembrava un cagnolino alla corte del presidente americano», ha detto, con la solita ironia al vetriolo. Ma la sua visione è risibile.
Chiunque conosca un minimo le regole della diplomazia sa che certi incontri non si annunciano con squilli di tromba e comunicati trionfali. Il silenzio stampa, tanto criticato, è spesso la condizione necessaria per un’efficace interlocuzione internazionale.
Nel frattempo, nei salotti televisivi e nelle chat riservate della sinistra, si consumava un altro psicodramma. Corrado Augias definiva il viaggio «inutile», mentre Francesco Merlo su La Repubblica parlava di «vuoto storico della politica estera italiana». In chat, intellettuali e politici discutevano se fosse meglio che la liberazione della Sala fosse ritardata, per non apparire come un successo del governo Meloni. Uno scenario surreale, dove il risentimento ha preso il posto della lucidità.
E poi c’è il capitolo Mark Zuckerberg. Il patron di Meta, accusato di aver spostato l’ago della bilancia a destra, è diventato il bersaglio di accuse tanto strampalate quanto prevedibili. Ma anche qui, la geopolitica vera emerge: le multinazionali, lungi dall’essere i burattinai del mondo, si allineano quando il potere glielo impone.
La realtà è che Zuckerberg, come molti altri, ha semplicemente compreso che per restare al tavolo del banchetto deve giocare secondo le regole imposte dai nuovi equilibri globali.
La sinistra intellettuale, assorta nelle sue elucubrazioni a tinte fosche, è stata smentita dai fatti. Meloni non è onnipotente, ma nemmeno lo spettro incompetente che i suoi detrattori vorrebbero dipingere. Gli apparati lavorano, la diplomazia si muove, e i gufi restano a guardare. Per loro, la realtà è il rospo più difficile da ingoiare.