La geopolitica non è mai stata amica della linearità. Chi credeva che la storia fosse finita, archiviata con l’implosione sovietica, si trova oggi a osservare un mondo che non smette di complicarsi. La storia, nella sua crudezza, è antileaderistica: i leader, al massimo, narrano e comunicano, ma dietro di loro ci sono gli apparati, quelli che muovono davvero le pedine. Apparati che potrebbero, in questa nuova presidenza Trump, offrirgli un appoggio più convinto rispetto al 2016.
Non per amore del tycoon, ma per un calcolo cinico e inevitabile: l’America è stanca.
Non lo è solo chi ha perso il lavoro nella Rust Belt, l’intero Midwest, la “catena arrugginita” delle fabbriche dismesse, simbolo di un impero in declino. Trump, lo si capisca bene, non è la causa di questa stanchezza. È la risposta a una depressione collettiva, un’ansia che ora si manifesta sotto forma di nevrosi geopolitica.
La depressione è pericolosa, però, quanto lo sono le parole di Trump. Non per quello che dice, ma per il contesto in cui agisce.
Quando minaccia il Canada – ventilando l’idea che Ottawa diventi il “51esimo Stato” – non sta solo provocando. Sta dando voce a una pulsione imperiale che si riaffaccia nel momento di maggiore fragilità dell’America. Lo fa con i suoi mezzi: una mappa postata su Truth Social in cui il Canada è coperto dalla bandiera a stelle e strisce, e dichiarazioni che invocano “forza economica” per piegare Ottawa.
Il Canada reagisce con fermezza, ma è più interessante capire cosa significhi questa narrativa per gli Stati Uniti. Trump, nei suoi toni iperbolici, esprime una verità: l’impero è logorato, e il Midwest – un tempo il cuore pulsante dell’industria americana – ne è la cartina di tornasole.
E poi ci sono Panama e Groenlandia. Trump parla di riprendere il controllo del Canale di Panama, evocando trattative fumose, e di annessione per l’isola artica. Dichiarazioni che, se prese sul serio, sembrano assurde, ma che riflettono un bisogno di riaffermazione: l’America, ferita, cerca nuovi simboli di potenza.
In questo scenario, la svolta a destra di Mark Zuckerberg non è che un altro segnale. Meta, come il resto del settore digitale, si allinea a un nuovo ordine, rinunciando al mito dell’indipendenza. I giganti tecnologici, che molti considerano i veri padroni del mondo, in realtà si piegano quando il potere glielo impone. Il “banchetto” del capitale ha regole ferree: chi non si adegua, ne resta fuori.
Ma il problema dei social va oltre la politica. Zuckerberg ammette che “la libertà di espressione è in pericolo”, ma dietro le sue parole c’è una realtà più semplice: i social non funzionano più.
I bambini non si pubblicano, l’ostentazione di lusso è diventata un boomerang, e gli influencer – poveretti – arrancano nel cercare qualcosa da dire.
Quello che vivremo, probabilmente, sarà l’ultimo spettacolo di questa società digitale. Come un “Hunger Games” dell’umiliazione online, dove gli influencer faranno di tutto per non sparire. Eppure, spariranno. Lentamente, ma inesorabilmente. I social non moriranno, ma diventeranno una televisione ancora più malvagia, fatta per spettatori passivi e creatori di contenuti senza anima.
La grande ironia, però, è che il business del futuro sarà proprio la rieducazione alla vita reale. E forse anche Trump, a suo modo, non fa che riproporre lo stesso concetto: riportare l’America al “vero sé”, in una battaglia contro la globalizzazione che, però, rischia di farle perdere anche ciò che resta della sua anima.