Ogni giorno, qui in Sardegna, la sanità pubblica sembra trascinarsi verso un baratro sempre più profondo. Per due cagliaritani su tre, la sanità pubblica "non basta più". Un giudizio che pesa come un macigno, ma che pare non scuotere nessuno tra chi dovrebbe fare qualcosa. La situazione è ormai disastrosa: reparti vuoti, personale stremato, attese insopportabili. Se qualcuno ha ancora il coraggio di chiamare questo un "servizio", allora è bene si guardi attorno.
Le ultime notizie non lasciano spazio ai dubbi. Un uomo, in preda all’esasperazione, arriva a minacciare gli infermieri del pronto soccorso di Cagliari. E come dargli torto? Perché l’indignazione, la frustrazione, la rabbia, non nascono certo dal nulla: nascono dalla realtà di un sistema che non funziona, di una politica che non ha più intenzione di tutelare la salute pubblica. La sanità, oggi, è la moneta di scambio per gli accordi, le alleanze, le clientele.
La Sardegna non è solo ultima nelle classifiche dell’Agenas: è ultima anche nel cuore e nella mente di chi dovrebbe proteggerla.
Gli ospedali diventano piazze di disperazione e i medici, intrappolati tra le lamentele dei cittadini e la disorganizzazione dilagante, sono lasciati soli. La politica non agisce, fa spallucce. E chi può scappa verso il privato, perché qui, in Sardegna, il diritto alla salute è per chi se lo può permettere. La sanità è il primo e più elementare indicatore di civiltà, e la nostra è ormai un fantasma.
Eppure, da parte del Governo, tutto tace. Le Leggi di Bilancio arrivano come pugni allo stomaco: tagli su tagli, e ancora tagli. I rettori, gli accademici, persino le categorie universitarie si uniscono alla protesta, consapevoli che stiamo distruggendo il futuro dei nostri figli. Ma quale futuro? La Sardegna è diventata un caso nazionale, eppure nessuno sembra volerlo vedere.
La realtà è che mentre la sanità sarda affonda, il Governo si volta dall’altra parte. Il problema? Non è la mancanza di risorse, ma di coraggio.