Il sole picchia forte su Domerat in questa domenica di giugno, e già dalle prime luci dell'alba si
respira aria di grande ciclismo. Centonovantacinque chilometri e otto decimi separano i corridori da
Montluçon, con sette salitelle di quarta categoria che sulla carta non dovrebbero disturbare il sonno
dei velocisti. Ma il ciclismo, si sa, è una scienza inesatta dove le previsioni servono a poco.
Alle dieci e dieci in punto il serpentone multicolore si srotola dalle strade di Domerat. Nell'aria c'è
già il profumo dell'estate francese e quel particolare silenzio che precede sempre le grandi battaglie.
Tra le ruote si nascondono storie che sanno di addio: Romain Bardet corre la sua ultima corsa a
tappe, Alessandro De Marchi la sua ultima stagione. Il tempo del ciclismo scorre veloce come le
ruote sul asfalto.
Non passa nemmeno un quarto d'ora che Paul Ourselin della Cofidis e Pierre Thierry dell'Arkéa
decidono di rompere gli indugi. Una fuga classica, di quelle che fanno tanto Tour de France d'altri
tempi: due francesi in terra di Francia, con il gruppo che li lascia andare quasi con benevolenza.
Quarantacinque secondi diventano un minuto, poi due, poi tre e quarantacinque. La Israel Premier
Tech si mette in testa al plotone con l'aria di chi controlla senza troppa convinzione.
Il ritmo è quello tipico delle tappe di transizione: sostenuto ma non esasperato, con il gruppo che
concede spazio ai battistrada senza mai perdere il controllo. Ourselin ha fame di punti per la maglia
a pois e su ogni strappo precede il compagno di fuga, costruendosi punto dopo punto la certezza di
indossare la prima maglia della corsa. È il ciclismo minuto, quello fatto di piccoli obiettivi che
diventano grandi soddisfazioni.
Quando Ourselin conquista il quarto punto in cima alla Côte de Domérat, sa di aver raggiunto il suo
obiettivo. Con la matematica dalla sua parte e la maglia a pois ormai assicurata, il francese della
Cofidis si rialza e lascia che il gruppo lo riassorba. È il calcolo perfetto del corridore esperto:
missione compiuta, energia risparmiata.
Pierre Thierry resta solo al comando, ma la sua fuga solitaria dura poco. Quando mancano ancora
quaranta chilometri all'arrivo, il copione cambia di colpo. Ben Healy della EF Education decide che
è arrivato il momento di scuotere la corsa, e il suo scatto fa scattare un allarme rosso nel cervello di
Pogacar e Vingegaard. Fred Wright della Bahrain Victorious riesce a raggiungere prima Thierry e
poi a staccarlo, proseguendo da solo con la disperazione di chi sa che le occasioni come queste
capitano una volta nella vita. Ma il gruppo ormai ha deciso che nessuno deve scappare, e Wright
viene riassorbito negli ultimi chilometri.
Il circuito finale diventa un teatro di battaglia. Le salitelle di quarta categoria, quelle che sulla carta
dovevano essere solo un ornamento, si trasformano in trampolini di lancio per attacchi a ripetizione.
È un crescendo rossiniano di emozioni: prima Laurance, poi Nerurkar, quindi Jorgenson con Van
der Poel che non si lascia mai sorprendere.
Ma il momento che spacca definitivamente la corsa arriva a cinque chilometri e mezzo dal
traguardo. Jonas Vingegaard, il danese di ghiaccio, decide di sorprendere tutti con uno scatto
improvviso che ha il sapore della disperazione e della genialità insieme. Con lui solo Pogacar e Van
der Poel riescono a restare, poi arriva Buitrago e infine, come un diavolo che spunta dalla scatola,
Remco Evenepoel.
Cinque fenomeni davanti, il resto del gruppo che insegue disperatamente. Romain Bardet, nel suo
ultimo Delfinato, prova a rientrare con Jorgenson, ma ormai i giochi sono fatti. I velocisti, quelli
che dovevano essere i protagonisti di giornata, si trovano tagliati fuori dalla festa, vittime di una
corsa che ha cambiato faccia negli ultimi chilometri.
L'ultimo chilometro è pura poesia in movimento. Van der Poel, che ha fatto della potenza la sua
religione, lancia la volata da lontanissimo. Duecento metri dopo rilancia ancora, con quella facilità
che fa sembrare semplici i gesti più difficili. Evenepoel ci prova dalla coda del gruppetto, con quel
suo stile inconfondibile che sembra danzare sui pedali anche quando la fatica diventa dolore.
Ma Tadej Pogacar, il fenomeno sloveno che ha riscritto le regole del ciclismo moderno, ha aspettato
il momento giusto con la pazienza del ragno nella tela. A centocinquanta metri dal traguardo,
quando tutti gli altri hanno già sparato le loro cartucce migliori, lui risale dalla coda del gruppetto di
cinque come se niente fosse. Non è solo potenza, è intelligenza tattica unita a una classe cristallina
che lascia senza fiato.
La volata finale è un capolavoro di precisione: Pogacar beffa tutti e taglia il traguardo con le braccia
al cielo, seguito da un Vingegaard che può solo applaudire la superiorità dell'avversario. Van der
Poel completa il podio di una tappa che ha ribaltato ogni pronostico.
Centonovantacinque chilometri che dovevano sorridere ai velocisti si sono trasformati in un assolo
dei giganti del grande ciclismo. Pogacar si veste di giallo e manda un messaggio chiaro a tutti:
questo Delfinato non sarà una passeggiata di preparazione, ma una battaglia vera tra i migliori
corridori del mondo.
Il sole tramonta su Montluçon tingendo di oro l'asfalto ancora caldo di fatica e di sogni. Domani si
ricomincia, perché il ciclismo non dorme mai e le storie più belle devono ancora essere scritte.