Non ci si credeva eppure è accaduto: l’Italia, patria di Machiavelli e del catenaccio, ha trovato il modo di espellere da Coverciano un uomo che parlava al pallone come un vate colla sua musa. Spalletti, il Certaldese malinconico, ha lasciato il tempio azzurro tra le ombre di una notte fiorentina, scortato non dai carabinieri ma dalla disillusione di un’idea calcistica mai divenuta carne.
I fatti. L’Italia, dopo essersi fatta strapazzare da Haaland e compagnia bella come un vecchio salmone norvegese, ha mostrato tutta la sua fragilità: difesa col fiato corto, centrocampo coi piedi quadrati, attacco evaporato come nebbia alle dieci. Eppure, in mezzo a questo disastro, il buon Luciano credeva ancora di poter redimere gli Azzurri, magari con una Moldavia ben battuta e qualche preghiera a San Gigio Donnarumma.
Ma Gravina, più savonaroliano che diplomatico, lo ha inchiodato: «Luciano, così non si va avanti». E lì, tra i cipressi e i fasti in rovina di Coverciano, è calato il sipario.
Il nostro calcio — che già negli anni Sessanta mostrava le sue smanie di autolesionismo — ha bisogno sempre d’un capro espiatorio. Fu la volta di Valcareggi per Rivera, poi toccò a Bearzot col dopo Mundial, quindi a Sacchi, il profeta del pressing soffocato dalla burocrazia federale. Ora è Spalletti, lucido fino al parossismo, a pagare per tutti: per la sterilità di Scamacca, l’involuzione di Barella, le amnesie di Donnarumma, e pure per qualche sovrapposizione mal riuscita di Di Lorenzo.
Eppure, nella sua dipartita c’è stile. Rinuncia allo stipendio, pretende parola subito — e non è poco in un ambiente che da sempre preferisce le coltellate dietro ai microfoni spenti. Si congeda con l’ultimo allenamento, quasi fosse l’ultimo giro del cavallo attorno all’arena, poi via, visibilmente commosso. Non risponde, non sbraita. Spalletti, il Ruzzante del calcio, saluta da par suo: con onore e con dolore.
Ora Gravina cerca il sostituto. L’uomo della Provvidenza, sempre che esista ancora, dovrà raccattare cocci e ricomporre un vaso che pare rotto da anni. Ma il problema non è solo l’uomo in panchina: è il pallone stesso che, in Italia, ha perso il senso della terra, del fango, della fatica. Ci si illude ancora che il talento basti, che l’azzurro sia una garanzia, quando ormai siamo divenuti la quarta fila d’Europa.
Luciano va via, ma non è lui il male. Il male è in una struttura che mastica sogni e sputa burocrazia. Il male è nel culto del possesso fine a se stesso, nell’esaltazione del dribbling che non fa male. E forse, in fondo, il male è che Spalletti pensava di poter cambiare tutto con la parola. Ma il pallone, ahimè, non ragiona. Rotola.
E lo ha rotolato via anche stavolta.