C'è qualcosa di magico e crudele nel modo in cui le montagne del Giro d'Italia sanno trasformare
sogni in incubi, certezze in dubbi. La sedicesima tappa da Piazzola sul Brenta a San Valentino, 199
chilometri attraverso le viscere del Trentino, ha scritto un capitolo di questa crudeltà con l'inchiostro
della pioggia e il sangue dei campioni caduti.
Sin dalle prime pedalate, sotto un cielo plumbeo che prometteva battaglia, la corsa ha mostrato il
suo volto più selvaggio. La pioggia, compagna fedele e traditrice di tante epopee ciclistiche, ha
cominciato a mietere le sue vittime quasi subito. Joshua Tarling, il giovane britannico della Ineos, è
stato il primo a pagare pegno: la ruota posteriore che perde aderenza sull'asfalto traditore, lo
schianto violento contro il guard rail, l'ambulanza che se lo porta via insieme ai suoi sogni di gloria.
Un ritiro che sa di presagio.
Ma il vero colpo di scena, quello che ha fatto tremare le fondamenta di questo Giro, è arrivato
quando la corsa aveva ancora 94 chilometri da percorrere. Primož Roglic, l'uomo che aveva fatto
del recupero la sua arte più raffinata, si è arreso definitivamente. L'ennesima caduta, l'ennesima
beffa del destino per il campione sloveno che sembrava maledetto da questi asfalti italiani. Il suo
ritiro non è solo la fine di una corsa individuale, ma lo stravolgimento completo degli equilibri di
classifica.
In testa, intanto, si consumava una fuga d'altri tempi. Sette uomini coraggiosi - Rafferty, Germani,
Tarling prima della caduta, Barrenetxea, Azparren, Cerný e quel Van Aert che sembra rinato -
avevano preso il largo con la determinazione di chi sa che certe occasioni non tornano. Ma le
montagne vere, quelle che decidono i Giri, aspettavano pazienti il loro momento.
Ed eccolo arrivare, quel momento. Sui primi tornanti del Carbonare, la corsa si è frantumata come
un cristallo. Lorenzo Fortunato della Astana ha fatto sua la cima, consolidando una maglia azzurra
di gran premio della montagna che sembra ormai cucita sulla sua pelle. Ma dietro, nel gruppo dei
migliori, si consumava un dramma silenzioso.
Isaac Del Toro, il giovane messicano che indossa la maglia rosa, ha mostrato per la prima volta i
segni della fatica. La terza settimana del Giro, quella che separa i campioni dai grandi corridori,
sembra aver iniziato a bussare anche alla sua porta. Non il crollo, sia chiaro, ma quella mancanza di
brillantezza che fino ad oggi non aveva mai accusato. Ha saputo limitare i danni con l'intelligenza di
un veterano, ma i suoi avversari hanno fiutato il momento di debolezza. Juan Ayuso, colui che fino
a pochi giorni fa condivideva con Del Toro il ruolo di capitano nella UAE Team Emirates, è invece
sprofondato in una crisi profonda. Staccato dal gruppo dei migliori quando la corsa si è fatta dura,
lo spagnolo ha perso minuti preziosi e probabilmente anche quello status di co-leader che aveva
caratterizzato la prima parte del Giro. Una caduta gerarchica che sembra segnare il definitivo
passaggio di consegne verso il giovane messicano.
È stato allora che Richard Carapaz ha tirato fuori dal cilindro la magia che lo ha reso campione
olimpico. Un attacco da manuale a cinque chilometri dall'arrivo, portato avanti con la saggezza
tattica di chi conosce ogni segreto della montagna. L'ecuadoriano ha rosicchiato secondi preziosi,
passando dal quarto al terzo posto della generale e rimettendo tutto in discussione.
Davanti, intanto, si consumava un finale che ha regalato una delle immagini più belle di questo
Giro. Lorenzo Fortunato e Christian Scaroni, compagni di squadra nella Astana, sono arrivati
insieme sul traguardo di San Valentino. Non una resa dei conti, ma la condivisione di un traguardo:
un abbraccio, un gesto che ha reso omaggio ai valori più puri dello sport, prima che Scaroni
tagliasse per primo la linea d'arrivo regalando alla sua squadra una doppietta che profuma di altri
tempi.
Ma è la classifica generale a raccontare la vera storia di questa tappa. Del Toro conserva la maglia
rosa, ma il suo vantaggio su Simon Yates si è ridotto a soli 26 secondi. Carapaz è risalito a 31",
mentre Derek Gee si è confermato quarto a 1'31". Dietro, il vuoto lasciato da Roglic e la crisi di
Ayuso hanno ridisegnato completamente la geografia di questo Giro.
Damiano Caruso, si trova ora quinto a 2'40", mentre Egan Bernal - che ha mostrato ancora una volta
la sua classe cristallina nonostante alcuni momenti di difficoltà - occupa la sesta posizione. Antonio
Tiberi e il giovane Pellizzari completano una top ten che promette battaglia fino all'ultimo
chilometro di Roma.
Quello che colpisce di più, in questa giornata segnata dalla pioggia e dalla passione, è come il Giro
abbia saputo ancora una volta reinventarsi. Con Roglic fuori dai giochi e la UAE che sembra aver
trovato il suo unico capitano in Del Toro, la corsa si è improvvisamente riaperta. Il messicano resta
il favorito ma la stanchezza della terza settimana comincia a farsi sentire anche per lui. Yates aspetta
paziente il momento giusto, Carapaz ha dimostrato di essere tornato quel corridore che sapeva
vincere le corse a tappe, e Caruso rappresenta quella saggezza italiana che sa sempre come e
quando colpire.
San Valentino ha accolto i corridori con la sua aria rarefatta e i suoi panorami mozzafiato, ma ha
anche sussurrato verità scomode: questo Giro è ancora tutto da scrivere. Le montagne hanno fatto la
loro prima, vera selezione, ma il verdetto finale è ancora lontano. E forse è proprio questa
incertezza, questa fragilità dei sogni e delle certezze, a rendere il Giro d'Italia l'ultima, grande
avventura del ciclismo mondiale.