Carloforte, 6 settembre 1995: trent’anni senza Sergio Atzeni

Ci sono un luogo e una data che bastano da soli a dire tutto: Carloforte, 6 settembre 1995. Da quel giorno in cui il mare si prese Sergio Atzeni, la Sardegna – e con lei la letteratura italiana – ha imparato a misurare il tempo con un’assenza. Trent’anni dopo, ciò che resta non è un ricordo sbiadito, ma una voce che continua a mordere la pagina e a parlare alle coscienze: limpida, ironica, ferma, intrisa di pietà per gli ultimi e di insofferenza per i conformismi.

Nato nel 1952, cresciuto tra l’isola reale e quella interiore, Atzeni fu giornalista e scrittore, ma soprattutto un artigiano della lingua. Nelle sue opere il lessico è una fucina: l’italiano si mescola al sardo senza compiacimenti folcloristici, come fanno le correnti quando s’incontrano tra canale e Mare Nostrum. Ne esce un dettato vivo, musicale, capace di portare in pagina l’odore di zolfo delle miniere, il sudore delle officine, il brusio dei vicoli, i motti di una saggezza popolare mai addomesticata. La Sardegna che racconta non è cartolina: è storia sociale, lotta, emigrazione, modernità spaesante. È l’isola che cambia, a volte a fatica, e che si porta addosso la stratigrafia delle sue ferite.

Opere diverse, un ordito coerente. “L’apologo del giudice bandito” mette in scena il rapporto sempre teso fra potere e verità, come se la giustizia fosse, prima che un tribunale, un destino morale. Con “Il figlio di Bakunìn” Atzeni consegna una delle più acute riflessioni italiane sul Novecento periferico e industriale: l’anarchia non come mitologia, ma come domanda ostinata di dignità e di libertà, calata nella vita concreta di chi lavora e perde, di chi spera e resiste. “Il quinto passo è l’addio” ha la compostezza di un congedo anticipato, quasi presagisse che a volte il filo si spezza quando la trama è più fitta. E poi i due libri che molti lettori tengono sul comodino come si tengono i talismani: “Passavamo sulla terra leggeri”, un canto originario che reinventa la memoria collettiva e la riconsegna a un popolo senza cerimonie; “Bellas mariposas”, la grazia feroce di una voce adolescente che vede il mondo per quello che è, con occhi che non mentono.

Chi lo ha letto sa che in Atzeni poesia e cronaca si tengono per mano. La sua è una scrittura che non teme il reale: lo attraversa. Gli umili, i minatori, gli operai, i marinai, gli innamorati con le tasche vuote, gli scettici che non rinunciano alla gentilezza: sono loro a prendere la parola. Non ci sono scenografie compiacenti, né inchini all’esotismo; c’è la lezione antica del racconto: capire gli uomini, chiamarli per nome, farli vivere in frasi che non si sgonfiano.

La morte a Carloforte – un’isola nell’isola – ha un che di simbolico: il mare, confine e ponte, talvolta giudice; la fine nel punto in cui l’acqua divide e unisce. Ma ridurre Atzeni a quell’epilogo sarebbe un torto. La sua permanenza – lo si vede a ogni nuova generazione di lettori – è affidata alle pagine, non all’oleografia. E nelle pagine restano la leggera ostinazione con cui inseguiva la parola giusta, la lucidità politica senza livori, la capacità di far dialogare l’epica e il quotidiano come se fossero vicini di casa.

Trent’anni sono abbastanza per capire ciò che davvero resta. Resta un canone personale dentro la letteratura italiana, che ha insegnato a guardare la Sardegna come laboratorio del mondo e non come periferia. Resta una musica: frasi brevi, precise, improvvise aperture liriche, poi di nuovo il passo secco della prosa. Resta un metodo: stare dalla parte dei vivi, con i loro torti e le loro ragioni, senza catechismi. Resta, soprattutto, una domanda: quanto coraggio serve per raccontare la verità senza far prediche? Atzeni l’ha fatto con naturalezza, come si respira.

Chi torna nei suoi libri oggi non fa un pellegrinaggio, fa un incontro. Scopre che la lingua può ancora essere un atto civile, che la memoria non è museo ma officina, che un’isola può diventare una bussola. Scopre che la letteratura, quando non mente, allarga il respiro. E che la fedeltà a un luogo – la Sardegna – non è campanile, ma orizzonte.

“Trent’anni senza”, si dice. Ma la misura è ingannevole. Sergio Atzeni continua a parlare ogni volta che apriamo un suo libro. E allora la data – Carloforte, 6 settembre 1995 – non è soltanto la fine di una vita: è l’inizio di un patto con i lettori. Noi, da questa parte del mare, gli promettiamo di non consumarlo in citazioni; lui, dall’altra, ci promette pagine che non invecchiano. È un patto discreto, sardo nel passo, italiano nella lingua, universale nella sostanza.

Se il tempo ha un merito, è quello di fare pulizia. Di Atzeni rimane il necessario: una voce. Non si grida, quando si ha una voce così. Si legge. E si ringrazia.

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