Lo sguardo delle parole: sentire, l’origine profonda della percezione


Nel labirinto della lingua, poche parole sono tanto ambigue e sfuggenti quanto sentire. Ci accompagna ogni giorno, ma spesso senza la consapevolezza della sua profondità. Sentire è il primo varco dell’esperienza umana, la porta attraverso cui il mondo esterno irrompe nella nostra coscienza. Ma in un’epoca satura di stimoli, in cui tutto si sente ma nulla si ascolta davvero, vale la pena tornare all’origine del verbo per ritrovarne il senso.

Il verbo italiano sentire discende dal latino sentire, che racchiudeva in sé un universo di significati: percepire con i sensi, provare emozione, avere un’opinione, comprendere con l’intelletto. Non era un verbo passivo, ma attivo, profondo. Non indicava solo la ricezione di uno stimolo sensoriale, bensì l’elaborazione, il giudizio, la consapevolezza dell’atto percettivo. Da sentire derivavano in latino numerosi termini che oggi ci appaiono distanti, ma che hanno in comune la stessa radice semantica. Sententia, da cui l’italiano sentenza, non era solo il verdetto di un giudice, ma il pensiero ponderato, la riflessione ragionata. Una sentenza è ciò che si "sente" nel senso di un’opinione ben fondata, un discernimento espresso con autorità. Sensatus, da cui sensato, indicava chi era dotato di buon senso, ovvero capace di percepire la realtà con chiarezza e giudicare con equilibrio. Sensibilis, che ha generato sensibile, significava capace di avvertire il mondo attraverso i sensi e le emozioni, ma con una connotazione nobile: il sensibilis era colui che, attraverso il sentire, arrivava a una forma di conoscenza. Assentire (ad + sentire), da cui assenso, significava condividere un pensiero o una verità attraverso il sentire comune, mentre dissentire ne era l’opposto, esprimere disaccordo, allontanarsi da un sentimento collettivo.

In questo quadro si comprende come, nel latino classico, sentire non fosse solo un atto percettivo, ma un processo mentale e affettivo, un’adesione interiore a ciò che si sperimenta. Con il passare dei secoli, il significato di sentire si è diviso in due grandi filoni: il sentire fisico, legato alla percezione sensoriale, in particolare all’udito, ma anche al tatto e al gusto, e il sentire interiore, ovvero l’elaborazione emotiva e razionale della percezione.

Oggi siamo abituati a concepire sentire soprattutto nel primo significato, quello sensoriale. Sentiamo un suono, un odore, una temperatura. Ma la nostra lingua conserva ancora tracce dell’altro significato, più antico e profondo. "Sentire" qualcosa nel cuore non significa percepirlo fisicamente, ma elaborarlo dentro di sé, viverlo come esperienza intima.

Non è un caso che in molte lingue romanze sentire abbia mantenuto questo doppio valore. In francese, sentir significa sia percepire con i sensi sia provare un’emozione. In spagnolo, sentir è sinonimo di provare un sentimento prima ancora che di percepire un suono. In italiano, dire "io sento" può voler dire ascoltare, percepire, ma anche empatizzare, comprendere, vivere un’emozione profonda.

Viviamo nell’epoca della sovrastimolazione. Siamo sommersi da suoni, voci, notifiche, rumori costanti. Sentiamo tutto, ma non ascoltiamo nulla. Il sentire è diventato un atto automatico, distratto, una registrazione passiva del caos che ci circonda. Eppure, il nostro sentire non è mai neutro. Ogni suono che entra nella nostra percezione, il percepire è un prendere coscienza della realtà tramite i sensi, quasi un'apprensione, un apprendimento, dicevamo, ogni suono lascia un segno, crea una reazione, anche quando non ne siamo consapevoli. Ma in un mondo in cui tutto si sente e nulla si elabora, si rischia di diventare sordi alla comprensione profonda. Forse è per questo che sta tornando la fascinazione per il suono autentico, per l’ascolto immersivo. Il vinile, con il suo fruscio e la sua imperfezione, è un simbolo di questa nostalgia: non solo il recupero del suono analogico, un invito a sentire con più attenzione, con più consapevolezza.

Sentire senza ascoltare, senza elaborare, è una condanna alla superficialità. È il paradosso dell’iperconnessione: siamo costantemente esposti al suono, ma incapaci di trasformarlo in conoscenza. Ma sentire non è ancora ascoltare. Il sentire è il primo stadio, la soglia, il punto di partenza della conoscenza. L’ascolto, invece, è un'attività, una scelta. Sentire è subire un suono, ascoltare è volerlo comprendere. E questo sarà il nostro prossimo passo nel viaggio nella logosfera.

Perché se sentire è il principio della conoscenza, ascoltare è la chiave per iniziare a capire il mondo.

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