È Pasqua, ma resta solo l’ombra dei cipressi: quale resurrezione per i pensionati di domani?

Oggi è il 20 aprile, è Pasqua. Dovrebbe essere il giorno della rinascita, della speranza, della resurrezione. E invece, leggendo l’ultimo numero di Eco, curato dall'economista Tito Boeri, ci si accorge che per il futuro previdenziale delle giovani generazioni non c’è nulla che richiami alla vita. Piuttosto, per citare il poeta Foscolo, si resta solo "all’ombra dei cipressi", e sempre che si abbiano i soldi per pagarsi almeno il funerale e le concessioni cimiteriali.

L’analisi è chiara, i toni misurati, ma l’impressione è inquietante. Ai lavoratori si chiede di più, si dà meno, e poi li si invita a mettere da parte il poco che resta. Se fino a pochi anni fa un lavoratore usciva dalla fabbrica o dall’ufficio con una liquidazione che gli permetteva di comprarsi un terreno o, finalmente, una casa, oggi si propone il seguente sillogismo: “Siccome con il sistema contributivo avrai una pensione pari al 60% del tuo stipendio (se va bene), allora versa il tuo TFR in un fondo pensione privato. Oppure rassegnati.”
Ma dove vogliamo andare?

I giovani lo hanno capito, anzi lo sanno fin troppo bene: non è in discussione se avranno o meno una pensione, ma quanto sarà misera. Non più un sostegno per la vecchiaia, ma un’elemosina, frutto di una carriera fatta spesso di contratti instabili, stipendi magri, contributi discontinui. E nel frattempo si sentono dire che devono “pensare per tempo al proprio futuro”, magari mentre vivono in affitto con altri due coinquilini e uno stage non retribuito sul curriculum.

Il problema non è soltanto economico, ma culturale. Abbiamo accettato, con un misto di rassegnazione e superficialità, il crollo del patto intergenerazionale che teneva in piedi il sistema: lavori, versi, e poi ricevi. Oggi si lavora, si versa, e si spera che lo Stato non cambi ancora una volta le regole. Perché è accaduto, accade, e accadrà ancora: ogni governo che arriva gioca con le pensioni come con le carte da ramino.

I tecnici suggeriscono l’accumulazione previdenziale volontaria, l’investimento a lungo termine, la diversificazione. Ma quante persone sotto i 40 anni possono permettersi davvero di accantonare somme consistenti in un fondo pensione privato? Come può una generazione che fatica ad accendere un mutuo, pensare a un PIP, un fondo, un comparto a capitalizzazione garantita?

Nel frattempo, il sistema pubblico scricchiola. Il numero dei contribuenti cala, i lavoratori già versano quasi il 40% del loro reddito a fini previdenziali, e si ipotizza di aumentare ancora il prelievo. Una follia. Come si può investire nel proprio futuro se ogni mese lo Stato ti toglie l’equivalente di una rata di mutuo senza garantirti nulla in cambio?

Ed è proprio oggi, nel giorno simbolo della rinascita, che dobbiamo porci la domanda più scomoda: può esistere resurrezione sociale senza giustizia previdenziale?
Perché se la vecchiaia diventa povertà, non è solo una questione individuale: è un crollo collettivo. È la fine del lavoro inteso come strumento di emancipazione e garanzia. È la trasformazione del TFR da premio di fine carriera a risparmio da investire per non morire di fame.

Non basta dire ai giovani “pensateci per tempo”. Bisogna creare le condizioni perché abbiano il tempo e i mezzi per pensarci. E invece si taglia sull’assistenza, si scaricano le responsabilità sulle famiglie, si mantengono baronie previdenziali intoccabili.

In questo scenario, più che resurrezione si intravede il collasso. Una società che rinuncia a garantire un futuro dignitoso a chi lavora è una società che ha perso il senso della propria stessa esistenza. Oggi è Pasqua. Forse è il momento giusto per chiederci se, almeno per la previdenza, possiamo ancora sperare in un terzo giorno.

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