Tour de France: quando il protagonismo scavalca le transenne: Il lato oscuro del tifo

C’è qualcosa di profondamente stonato in certe immagini che il Tour de France ci consegna, anno dopo anno, con una regolarità che ha ormai il sapore dell’abitudine. Non parlo degli scatti mozzafiato delle Alpi, né delle fughe disperate sotto il sole cocente della Provenza. Parlo delle altre immagini. Quelle che nessuno vorrebbe vedere. Quelle in cui il confine tra entusiasmo e stupidità viene non solo superato, ma calpestato, annientato, dissolto. Perché da anni il Tour è anche questo: il teatro di una maleducazione sempre più spettacolare, più invasiva, più pericolosa. Tutto comincia (o forse dovrei dire che si comincia a notare) nel 2021 con una scena che ha fatto il giro del mondo: una donna si sporge lungo la strada per mostrare un cartello dedicato ai nonni. Un gesto tenero? Forse. Ma il risultato è stato un disastro: Tony Martin viene urtato, cade, e trascina con sé a terra una ventina di corridori. Il gruppo si sfascia, la corsa s’interrompe, i lividi restano. La donna fugge. Poi viene rintracciata, arrestata e condannata. Una piccola giustizia, certo. Ma è il segnale che il pubblico del ciclismo ha smesso da tempo di essere spettatore, per ambire a ruoli da protagonista. A qualunque costo. Non è un caso isolato. Nel 2023, un altro spettatore si sporge eccessivamente per scattarsi un selfie con i corridori. L’impatto è inevitabile: stavolta è Sepp Kuss a farne le spese, ma dietro di lui finiscono a terra in tanti. Ancora una volta, il bisogno di apparire – di essere presenti, riconoscibili, visibili – si traduce in incidente, panico e ritardo. Una dinamica che in altri contesti si chiamerebbe semplicemente incoscienza. Qui, pare sia ormai la prassi. Nel 2024, il Tour parte da Firenze, portando con sé il carico di festa, folklore e inciviltà. Jan Hirt viene colpito al volto da uno zaino tenuto troppo vicino al tracciato da un tifoso distratto o troppo zelante. L’impatto gli costa due denti. Il corridore continua, perché i ciclisti sono abituati alla sofferenza. Ma non è questo il tipo di dolore che lo sport dovrebbe infliggere. Quello è il dolore dell’idiozia altrui, e non ci sono muscoli d’acciaio che bastino a sopportarlo. Sempre nello stesso anno, nel cuore dei Pirenei, un’altra scena surreale: durante una volata tra i grandi del Tour, Pogacar e Vingegaard si ritrovano bersaglio di lanci di patatine da parte di uno spettatore. Un atto che, a essere indulgenti, potremmo definire goliardico. A essere onesti, invece, è un gesto pericoloso, idiota, violento. L’associazione dei ciclisti annuncia di voler procedere per vie legali. Non si può più ridere di fronte a chi gioca con la salute degli altri per un attimo di notorietà da condividere con gli amici o sui social. Ma se pensavate di averle viste tutte, il 2025 è arrivato per ricordarci che non c’è limite all’assenza di rispetto. Durante la seconda tappa, a Boulogne-sur-Mer, decine di persone si sono letteralmente arrampicate su un cimitero pur di vedere meglio i corridori. Sì, un cimitero. Con le tombe usate come sedute panoramiche, gli spazi sacri trasformati in gradinate. Non solo mancanza di buon senso, ma un vero oltraggio alla dignità, al pudore, al significato profondo di ciò che dovrebbe restare inviolabile. L’agonia del senso civico si è compiuta nel silenzio dei morti, calpestati per un posto in prima fila. E se tutto questo ancora non bastasse, nella stessa giornata, un altro episodio ha chiuso il cerchio della vergogna. Jonathan Milan, uno dei nomi più promettenti del ciclismo italiano, viene colpito in pieno volto da uno smartphone sporgente durante la corsa. Il tifoso lo teneva in mano, proteso oltre il limite della carreggiata, nel tentativo – presumibilmente – di immortalare chissà cosa. Lo ha fatto, certo. Ma il momento è stato quello in cui un atleta professionista ha rischiato di farsi male per un possibile selfie mosso. Ora è lecito domandarsi: quanto ancora dovremo tollerare tutto questo? Quanti altri denti dovranno saltare, quanti altri lividi dovranno comparire sul volto di chi lavora, lotta, si sacrifica, prima che si prenda coscienza che il pubblico non ha il diritto di rovinare lo spettacolo che pretende di celebrare? Il Tour de France non è un circo, e i corridori non sono bestie da palcoscenico da lanciare in pasto alla follia collettiva. È uno degli ultimi bastioni della fatica pura, della bellezza sportiva, della disciplina mentale e fisica, insieme alle altre prestigiose corse a tappe di tre settimane. Ma tutto questo viene costantemente messo a rischio da un pubblico che confonde la passione con il protagonismo, l’entusiasmo con l’arroganza, l’emozione con l’idiozia. Forse è tempo di dirlo chiaramente: non è più un problema di singoli episodi. È un problema culturale. Di una società che ha reso l’apparire più importante dell’essere, l’inquadratura più importante della realtà, la diretta più importante della vita. Finché non verrà ristabilita una gerarchia di senso, di rispetto, di civiltà, il Tour continuerà ad andare avanti tra transenne, denti rotti e cadute evitabili. E allora, quando applaudiranno all’arrivo del vincitore, forse dovremmo chiederci quanti spettatori in meno – e quanta dignità in più – servirebbero per rendere di nuovo grande questa corsa. Magari, davvero, servirebbe meno indulgenza ed un regolamento in grado di colpire anche gli atteggiamenti dei tifosi.

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