Eric "Butterbean" Esch: il fagiolone col pugno di tuono

Era grosso, goffo e con la testa rasata come un monaco in pellegrinaggio verso il ring. Ma guai a prenderlo sottogamba. Eric Esch, detto Butterbean, il “fagiolo gigante” della boxe, sembrava uscito da una fiera del Midwest più che da un centro federale d’allenamento. Eppure, a suo modo, è stato un autentico personaggio da tragedia popolare, di quelli che Gianni Brera avrebbe tratteggiato come “eroe della plebe, venuto al mondo con i pugni e senza alibi”.

Nato per vendere elettrodomestici e finito per abbattere uomini. La bilancia l’ha sempre odiata: oltre 180 chili distribuiti su un metro e ottanta, roba che nemmeno Foreman ai tempi del barbecue. Per entrare nei pesi massimi, Butterbean fu costretto a sottoporsi a una dieta spartana. Ma una volta salito sul ring, la ferocia che sapeva sprigionare non aveva bisogno di bilance. Aveva fame. Fame di KO.

Il suo pugno era una forma di punizione divina, un giudizio universale espresso in ganci. 77 vittorie, 54 prima del limite, tra le quali quella leggendaria da 18 secondi netti. Diciotto. Il tempo di un caffè versato male.

Sognava Mike Tyson, quel torero del Bronx che ha insegnato al mondo che la boxe può anche essere filosofia violenta. Non lo ha mai incrociato sul quadrato, ma il solo fatto che lo nominasse come avversario desiderato fa capire dove volesse stare: non nell’Olimpo, ma tra i gladiatori.

Appassionato di motori, comparsa in film, programmi TV, lottatore occasionale nel wrestling. Un uomo da county fair, da sfida col toro meccanico, da scommessa notturna in un parcheggio illuminato al neon. Ma anche un professionista serio, sempre leale, mai sbruffone, mai vile.

Ha lasciato un'impronta buffa e al contempo epica, quella che si imprime solo quando si gioca la partita della vita con le carte che si hanno, senza bluffare mai. E lui le ha giocate tutte, una dopo l'altra, come si gioca un poker tra operai dopo il turno di notte: col cuore in mano e il sudore sulla fronte.

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