Il giorno in cui il Cagliari si arrese prima ancora di combattere

A Milano, il Cagliari è sceso in campo senza corazza, senza scudo, e soprattutto senza la consapevolezza di ciò che stava per affrontare. È la sera del 12 aprile 2025, e sul prato dove un tempo si scrivevano epiche battaglie sportive, va in scena un copione che pare già letto, già sofferto, già pianto. L’Inter vince 3-1 senza sforzo, senza fretta, senza neppure sudare troppo la maglia. Eppure non è solo una sconfitta, è la fotografia sbiadita di un'identità che pare ormai smarrita.

Il Cagliari ha indossato una maglia rossa con un serpente dorato, simbolo antico… ma non suo. Quel biscione che appartiene a Milano più di quanto i Quattro Mori appartengano alla Sardegna, si è stagliato sul petto dei rossoblù come una profezia sbagliata, un travestimento malriuscito. In un giorno in cui si sarebbe potuto onorare lo scudetto di Riva e compagni, si è scelto invece un omaggio opaco, quasi servile, all’avversario mascherato per un rimando all’academy cinese con la scusa dell’anno cinese, quando visto il doppio senso creatosi, sarebbe stato meglio optare per un drago. Un inchino fatto stoffa, che ha preceduto un altro, più doloroso, sul campo.

Perché non è solo il risultato che brucia. È la maniera. È la postura. È la resa prematuraElia Caprile, ultimo baluardo, ha fatto quel che ha potuto, raccogliendo palloni in fondo al sacco come un netturbino chiamato a ripulire i disastri altrui. Gli altri? Ombre. Fantasmi. Sagome sbiadite di ciò che dovrebbero essere. Difensori col passo da turisti, centrocampisti spaesati come viaggiatori senza meta, attaccanti condannati alla solitudine e all’invisibilità.

Chi era in campo, sembrava non sapere il perché. E chi li ha guidati, sembrava aver smarrito la mappa.
Davide Nicola, che della resilienza ha fatto un’arte, stavolta ha proposto una squadra scollata, incoerente, ingiustificabile. Le sue scelte, più che tecniche, sono apparse casuali. L’alternanza forzata fra Marin e Coman, l’assenza iniziale di un regista puro, l’ennesimo centrocampo costruito per distruggere ma incapace di costruire, tutto ha contribuito a un copione già visto troppe volte.

Si potrebbe dire che l’Inter è troppo forte. E lo è. Ma l’Inter non ha vinto per forza, ha vinto per inerzia. Perché dall’altra parte c’era una squadra che si è concessa. Che ha spalancato porte, ceduto metri, regalato occasioni.
Un Cagliari che, pur con qualche lampo isolato – come il gol di Piccoli su cross finalmente decente – ha dato la sensazione di non credere davvero di poter tornare a casa con qualcosa in mano.

Allora sì, la domanda vera è: perché? Perché questa apatia, questa arrendevolezza? Forse perché la lotta salvezza pesa sulle gambe, svuota la testa. Forse perché il senso di ingiustizia per i punti persi per strada si è trasformato in sfiducia. Forse, più semplicemente, perché manca una direzione. Una vera. Una condivisa. Perché quando in campo vedi solo tentativi sfilacciati, cambi a casaccio, giocatori che sembrano non sapere a chi passare la palla… allora ti accorgi che non è solo il corpo a mancare, è lo spirito.

E così, mentre i tifosi continuano a riempire i settori ospiti quando non gli viene negata la possibilità di entrare, mentre sperano, gridano, si arrabbiano e pagano di tasca propria per una fede che non tradiscono mai, la squadra sembra arrancare nel buio, senza una lanterna, senza una meta. E questo, più del 3-1, più degli errori difensivi, più dei gol presi in serie, è ciò che fa male. Perché si può perdere. Ma non si può non combattere.

A San Siro, sabato pomeriggio, il Cagliari ha perso. Ma soprattutto, non ha combattuto.

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