Dal Sarcoma di Ewing alla Rinascita: la battaglia di Roberta Marongiu, la ragazza che non si è arresa mai

  «A diciotto anni pensi che la vita sia tutta davanti. Non che qualcuno ti dica che potresti non averne più molta». C’è un vecchio detto, nell’Isola, che recita più o meno così: alcune persone la croce ce l’hanno di legno, altre di ferro. Vuole significare che tutti noi abbiamo le nostre battaglie, i nostri combattimenti più o meno silenziosi, ma che alcuni individui hanno un percorso molto più ostico, molto più difficoltoso. Per loro, la via è costellata di inciampi, ma spesso è proprio dal dolore che nasce la forza più prorompente, quella più forte e potente. Roberta Marongiu se lo ricorda come fosse ieri, anche se da allora sono passati ben ventiquattro anni. Torino, Leinì, Teulada: una vita già divisa tra due mondi. “Il continente” e l’Isola.

  Quando Roberta, con i suoi genitori, torna in terra sarda, non sono solo rose e fiori. «Ho sofferto per il trasferimento in Sardegna a dieci anni», racconta. «Ma lì ho dovuto lasciare mia madrina Genny, la sorella che non ho mai avuto». L’infanzia, semplice e piena di sacrifici, le ha insegnato presto il valore della forza, del sacrificio e del lavoro di squadra: dai pattini alla pallavolo, tanto voluta dalla mamma, dai sogni interrotti a piccoli successi quotidiani. E poi i primi dolori veri: una cugina che a ventuno anni sceglie di farla finita, un padrino che muore quando lei ha solo quindici anni. Ferite che segnano, ma non preparano a ciò che arriverà: siamo tutti impreparati di fronte alla morte, che pure è così naturale – proprio come la vita –, ma ancor più siamo impreparati alla malattia. Tutto comincia con un gonfiore alla caviglia, apparentemente innocuo. Una visita di controllo, un’ecografia, e la vita cambia. «Non ero una che andava dal medico per qualunque cosa, ma quella volta ho deciso di andarci. Non pensavo che un piccolo controllo potesse trasformarsi in un calvario. Il 9 marzo 2001 parto per Firenze, devo fare una semplice biopsia. Se tutto fosse andato bene, si sarebbe trattato di qualcosa di benigno che potevo aspettare di togliere dopo la scuola. Tornai l’11 marzo, pensando che tutto potesse continuare normalmente». Ma il 21 marzo, primo giorno di primavera, il telefono squilla. «Sentivo gli uccellini, ero di buonumore, mi mettevo a studiare. Verso le 10.30 sento il telefono di casa, mi alzo con il gesso e qualche chilo in più, non riesco a rispondere subito. Sento la voce di mio padre, lo chiamo e lui mi guarda triste, con gli occhi lucidi: era un Sarcoma di Ewing, un osteosarcoma tra i peggiori». «Ho capito tutto in quel momento. Urlavo e piangevo. Le urla erano così forti che i vicini, come succede nei paesi, arrivarono. Mi chiedevo: “Perché a me?”. Mia madre arrivò dal lavoro, si guardò con mio padre, si abbracciarono e piangevano. Pensando a loro, mi dissi che se mi facessi forza, anche la loro paura poteva affievolirsi». «Mi pulii le lacrime, e come se nulla fosse successo, chiesi di aiutarmi a lavarmi i capelli e andare a scuola a dare la notizia ai miei compagni. Dovevo anche informarli che l’esame l’avrei fatto con loro». Poi arriva il calvario delle cure. «Il primo aprile parto per Pisa per cominciare tutto. Il medico ci vuole parlare separatamente: sono maggiorenne, devo sapere a cosa sto andando incontro. Tre opzioni: faccio la cura e va bene, oppure si cambia protocollo in base alla reazione del tumore e del fisico, amputano la gamba, oppure muoio». Un colpo al cuore.

  «Comincio il primo ciclo di chemio e perdo peso. A metà mese, il trauma dei capelli: prima rasata, poi completamente calva. Tutti pensavano fosse il male minore, per me era un incubo nell’incubo. Ho scoperto però che stare senza capelli aveva anche i suoi vantaggi… tranne d’inverno, che faceva freddo». In tutto ciò, Roberta riesce a diplomarsi: «Avevo ancora da fare sei cicli di chemio, raccogliere cellule staminali per l’autotrapianto, radioterapia. Mi mancava tantissimo, ma lo scoglio dell’esame l’ho superato e ne sono fiera». Con grande forza, prosegue. «Riesco a finire le terapie nei tempi previsti, nonostante dolori, difficoltà, paure. La mia fortuna è stata essere in un reparto pediatrico: vedere la voglia di vivere dei bambini mi ha dato la forza. La domanda “Perché a me?” è diventata “Perché non a me? Forse questo percorso mi serve a imparare cose che altrimenti non avrei potuto imparare”». Anche dopo la fine delle cure, le difficoltà non finiscono: «La radioterapia mi porta ulcere, il tendine d’Achille è esposto, devo subire altri interventi. Tornando in Sardegna, mi dicono che rischio l’amputazione se non mi ricovero». Poi però, piano, un passo dopo l’altro l’incubo finisce. «Il percorso era estenuante: ricoveri ogni 21 giorni, viaggi ogni 10. Ma dopo l’ultimo ciclo, il più duro, a dicembre 2001, con azzeramento del midollo e reimpianto delle cellule staminali, ho capito che superando anche questo, ero libera. Un po’ triste, certo, per le conoscenze e affetti lasciati, ma libera». Dodici anni dopo, il dolore più grande: la madre se ne va, colpita dalla malattia. «Mi ha sempre detto che se mi fossi salvata, Dio poteva prenderla come pegno. Ma la sento sempre: so che mi protegge e non mi lascia mai da sola. Ho sempre mio padre a cui devo badare visto che ha problemi di salute». Cosa lascia una guerra così?, viene da chiedere. In che modo può renderci più forti? «Lascia cicatrici, visibili e invisibili. Ma anche consapevolezza, forza e la certezza che puoi affrontare tutto. Parlare con gli altri, vedere chi soffre, chi sopravvive: tutto ha un senso». Oggi Roberta ha 43 anni. Lavora in un’azienda informatica, ha studiato criminologia, fa volontariato al servizio delle persone che non stanno bene (come lei a suo tempo), ama i suoi sei gatti, i concerti, i corsi di ogni tipo. «Dopo la malattia non mi precludo nulla. Non voglio rimpianti. Forse non avrò figli, ma vivo con pienezza». E la lezione più grande? «La vita è fragile. Ma è anche capace di sorprenderti se le lasci spazio. Ogni giorno è un regalo. Ogni giorno è una possibilità».

L'Intervista

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