La questione della parola "negro": ipocrisia e realtà nel dibattito italiano

  In Italia, sembra che non si riesca mai a parlare di certi argomenti senza cadere nella trappola dell'ipocrisia o del politicamente corretto più spicciolo. Prendiamo il caso della parola "negro", una parola che, fino a qualche decennio fa, non destava alcuno scandalo e che oggi è invece diventata il simbolo di tutti i mali della società, almeno a sentire certi moralisti da salotto. Ma facciamo un po' di chiarezza, perché di questo passo rischiamo di non capire più nulla. Cominciamo col dire che, storicamente, in Italia la parola "negro" non è nata con intenti dispregiativi. 

  Non è stato un insulto, almeno non fino a quando i tempi e i contesti non l'hanno caricata di significati che non aveva in origine. "Negro" era semplicemente il termine che si usava per riferirsi alle persone di origine africana, e lo si usava nelle scuole, nei libri, nelle canzoni, senza che nessuno sollevasse un sopracciglio. E non era un paese migliore o peggiore per questo. Semplicemente, quella parola non aveva ancora assunto il peso specifico che ha oggi. Allora, che è successo? È successo che, come spesso accade, abbiamo importato un dibattito che viene da tutt'altro contesto storico e sociale, quello americano, senza fare i conti con la nostra realtà. 

  Negli Stati Uniti, la parola equivalente ("nigger") ha una storia ben diversa, fatta di schiavitù, segregazione razziale e discriminazioni sistematiche. È una parola che, nei contesti giusti, può ferire come un coltello. Ma in Italia? Qui la storia è un’altra, eppure si è deciso di applicare lo stesso metro di giudizio, senza badare troppo al fatto che le parole non sono pietre uguali ovunque vengano scagliate. E allora ci ritroviamo in questo paradosso: la parola "negro" viene bandita dal linguaggio pubblico, con tanto di sanzioni sociali per chiunque osi pronunciarla, e intanto, proprio mentre si fa questo, si continua a ignorare il vero problema, che è il razzismo reale, quello che si manifesta nei fatti, non nelle parole. È facile prendersela con chi usa un termine, ma è molto più difficile combattere le discriminazioni che avvengono ogni giorno sotto i nostri occhi. Certo, oggi la parola "negro" è percepita come offensiva da molti, e questo va rispettato. 

  Ma criminalizzare chi la usa senza malizia, magari perché cresciuto in un’epoca in cui il termine era neutro, è un esercizio di ipocrisia. Non si combatte il razzismo cambiando le parole se non si cambiano anche i comportamenti e le mentalità. E soprattutto, non si fa giustizia riducendo tutto a una questione di linguaggio, come se la lotta al razzismo fosse una gara a chi è più virtuoso nel parlare. Invece di puntare il dito e di fare processi sommari a chiunque usi un termine che non ci piace, dovremmo chiederci: cosa stiamo facendo, concretamente, per affrontare il razzismo in Italia? Non sarebbe più utile educare, spiegare, contestualizzare, invece di demonizzare? Non sarebbe meglio combattere il vero razzismo, quello che si manifesta nelle discriminazioni sul lavoro, nell'accesso ai servizi, nei pregiudizi radicati nella nostra società? In fin dei conti, la questione della parola "negro" è un perfetto esempio di come in Italia ci si perda spesso nelle forme, dimenticando la sostanza. Si parla tanto, si discute, si litiga, ma poi si evita accuratamente di fare i conti con il vero problema. E finché non ci decideremo a farlo, resteremo prigionieri delle nostre stesse ipocrisie, in un dibattito sterile che non cambierà mai nulla.

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