C’è un luogo nell’interno di Sardegna in cui il pane non è solo pane. Non è alimento, non è semplice nutrimento. È forma, simbolo, identità. È silenziosa grammatica di un’arte che precede le parole, e sopravvive ai secoli: è il pane rituale, ed è protagonista a Monteleone Roccadoria, piccolo borgo aggrappato alle rocce e alla memoria. Qui, nelle stanze del Museo del pane, si è svolta la nuova tappa di “Chenamos in carrela”, rassegna di eventi che non si accontenta di raccontare la tradizione, ma la riattiva, la restituisce viva e feconda.
Il 6 giugno, fra le mura odorose di farina e legno antico, si è parlato di pani cerimoniali e lievito madre: due facce di un’identità alimentare che è prima di tutto culturale, sociale, esistenziale. Lo ha spiegato, con misura e rigore, il professor Antonio Farris, presidente dell’Accademia sarda del lievito madre, docente e studioso delle fermentazioni naturali. «I pani rituali sardi non sono un oggetto decorativo. Sono segni di passaggio, strumenti di relazione. Accompagnano la nascita, il matrimonio, la morte. Sono lingua simbolica della comunità», ha detto, con la voce di chi sa che le civiltà si raccontano nei dettagli più umili.
Eppure l’umiltà del pane sardo è solo apparente. Perché impastare significa tramandare. E tramandare, come ha dimostrato il laboratorio guidato dalla maestra panificatrice Efisia Piria, è atto che richiede sapienza, precisione, occhio e mano ferma. Forbici, pinzette, coltelli: strumenti chirurgici per incidere, modellare, intrecciare. I partecipanti, quasi novizi in un rito antico, hanno visto come il pane prende forma di colomba, di cuore, di fioritura sacra. E hanno capito che ogni taglio è un gesto che parla, ogni timbro è un saluto alla vita o alla morte.
La sindaca Giovannina Fresi, il presidente della Pro Loco Pietro Fois e l’enogastronomo Tommaso Sussarello hanno accompagnato l’incontro con la consapevolezza che, in un’epoca dove tutto corre, solo la lentezza può custodire il senso. E il pane, che cresce lentamente sotto un panno, racconta proprio questo: la resistenza silenziosa delle culture che non si arrendono alla smemoratezza.
Il lievito madre, ha spiegato ancora Farris, è molto più che un ingrediente: è una creatura viva, fatta di microrganismi che lavorano in silenzio per rendere il pane non solo buono, ma sano. «A differenza del lievito di birra, che lascia intatte molecole troppo grandi per il nostro metabolismo, il lievito naturale le scompone. Così il pane diventa digeribile, utile, quasi terapeutico», ha detto, con l’autorevolezza di chi coniuga laboratorio e sapere antico. Alcuni campioni sono stati distribuiti tra i presenti: come reliquie laiche, affidate alla custodia di mani curiose e grate.
La serata si è conclusa con una visita al borgo e al Museo, dove le immagini di Ivano Piva – raccolte nella mostra “Apparentemente” – hanno aggiunto un’altra dimensione a quella narrazione: quella visiva, simbolica, evocativa. Un racconto di pietre, pani, gesti e volti, nel cuore di una Sardegna che sa ancora parlare con voce propria.
Il prossimo appuntamento con “Chenamos in carrela” sarà il 21 e 22 giugno a Villanova Monteleone, con la cena sociale in piazza. Ma l’appuntamento vero è con un’idea: che la cultura non sia una parola da festival, ma un impasto vivo di memoria, mani e materia. In Sardegna – per chi sa ascoltare – lo dice anche il pane.