Al Maradona il clima è quello delle grandi solennità. Sciarpe al vento, tamburi in petto e un catino azzurro che ribolle d’attesa: Napoli è a un passo dalla storia, e il Cagliari, salvo ma in penitenza, ne è il devoto testimone. L’undici di Conte, maestro del pragmatismo, si comporta da squadra d’alta quota: mette il vestito buono, quello da titolo, e chiude la pratica come si fa nei tornei di provincia, dove si vince con il coltello tra i denti e le idee chiare fin dal riscaldamento.
Il Cagliari, svuotato dall’ansia salvezza e probabilmente appagato nel profondo, scende in campo con l’umiltà di chi sa di aver già completato il proprio compito stagionale. Il Napoli, invece, entra in campo come un esercito disciplinato, e fin dai primi giri di lancetta impone il proprio ritmo: verticale, aggressivo, avvolgente. Il Cagliari si difende con ordine, e Sherry – il meno responsabile tra i suoi – è costretto a metterci più volte le mani, specie quando Neres si invola e semina panico.
La partita si sblocca al minuto 41, ed è una giocata da calcio antico, quasi inglese, a firmare il vantaggio: McTominay – mediano di fosforo e dinamite – riceve al centro dell’area, spalle alla porta, si coordina in girata e scarica un destro che brucia Sherry. Gol meritato, scolpito nel marmo della supremazia territoriale. Lì si chiude, di fatto, ogni velleità ospite.
Nella ripresa il copione resta immutato. Il Napoli, che sente il profumo dello scudetto come il levriero la lepre, non allenta la morsa. E al 51’ arriva la giocata che meriterebbe di essere incisa nei manuali: Lukaku – possente come una locomotiva e lucido come un ingegnere – prende posizione sui due centrali rossoblù, li sovrasta con mestiere e strapotere, poi calcia di sinistro a incrociare. Gol favoloso, probabilmente la miglior sintesi del Napoli contiano: atletismo, freddezza, verticalità.
Quella rete è un manifesto: racchiude tutta la filosofia del tecnico leccese, che con Lukaku ha ritrovato il terminale perfetto per un calcio d’urto e di logica. Il belga non danza, ma colpisce. Non ammalia, ma demolisce. È l’uomo dei momenti pesanti, e come spesso accade a Conte, il campionato lo vince chi ha il centravanti più efficiente e la difesa più ruvida.
Il Cagliari, dal canto suo, fa poco per cambiare il destino del match. Nicola sceglie la via della prudenza, forse della resa silenziosa. Il cambio Obert al posto di Augello sembra il frutto di un sorteggio più che di un’esigenza tattica. I rossoblù si affidano a qualche corsa isolata di Piccoli e alle scelte confuse di Mutandwa. Poco altro. Nessuno si aspettava il colpaccio, ma la sensazione è che si potesse almeno tentare l’insolenza.
Finisce 2-0, con il Napoli che conquista il quarto scudetto della sua storia. Una festa che esplode sulle gradinate e che rende la notte partenopea densa di gloria e di memoria. Il Cagliari saluta con onore una stagione difficile, chiusa con l’obiettivo minimo centrato, ma con molti interrogativi ancora aperti: l’identità di gioco, la gestione dei giovani, la programmazione futura.
Tra qualche giorno calerà il sipario sulla Serie A. Poi spazio al calciomercato, il teatro delle illusioni sotto il solleone, dove si vendono sogni a rate e si costruiscono speranze da rodaggio. Ma oggi, al Maradona, il Napoli ha insegnato che la vittoria nasce dalla continuità, dal lavoro, dal dettaglio. E Conte, che di scudetti si intende, ha solo raccolto ciò che aveva seminato. Senza poesia, ma con tanta sostanza.