Lo sguardo delle parole: ascoltare, il verbo dell'attenzione

Dopo sentire, la nostra esplorazione del senso dell’udito ci porta ad ascoltare, un verbo spesso dato per scontato, ma che cela in sé un’intera filosofia dell’attenzione. Sentire è un atto passivo, ascoltare è una scelta. Ed è qui che si gioca la differenza tra un mondo in cui le parole hanno peso e un mondo in cui si dissolvono nel rumore di fondo.

L’italiano ascoltare deriva dal latino auscultare, che significava "porre attenzione con l’udito", ma anche "seguire un consiglio, obbedire". Non è un caso: nell’antichità, ascoltare era molto più di un atto percettivo, era un atto di disciplina interiore, di accoglienza del sapere, di apprendimento. Per questo, in latino si diceva auscultare praecepta, ovvero seguire le istruzioni di un maestro, come se l’atto dell’ascolto fosse già un primo passo verso l’azione.

L’evoluzione del termine ha lasciato tracce in diverse lingue: il francese écouter, lo spagnolo escuchar, ma anche il tedesco horchen, che a sua volta deriva da hören, ovvero udire in profondità. Questo perché ascoltare non è solo sentire, ma è cogliere l’essenza di ciò che viene detto. Ecco perché nel diritto romano l’auditor era colui che ascoltava con attenzione per giudicare: audire in latino era più che un semplice atto uditivo, era un processo di discernimento. Da qui derivano parole come audience e auditorium, luoghi in cui si ascolta non per dovere, ma per comprendere.

Ma oggi? L’ascolto è in crisi. Abbiamo ridotto tutto a un sottofondo, a un flusso continuo di suoni e parole che scivolano senza sedimentare. Viviamo un’epoca in cui tutti vogliono essere ascoltati, ma nessuno è disposto ad ascoltare davvero. L’ascolto è diventato un fenomeno superficiale: si sente, ma non si interiorizza. Tutti vendono qualcosa, tutti parlano, tutti gridano per ottenere attenzione. Ma chi è ancora capace di fermarsi e ascoltare?

Questa crisi dell’ascolto ha radici profonde. Nell’antichità, ascoltare era un atto di immersione, un rito sacro. I filosofi parlavano ai loro discepoli, e l’ascolto era il primo passo verso la conoscenza. Oggi, invece, siamo assuefatti al rumore, circondati da parole registrate, trasmesse, riprodotte senza mai essere realmente assorbite.

Eppure, il nostro stesso cervello distingue tra sentire e ascoltare. L’atto del sentire è automatico, istintivo, primordiale. L’ascolto, invece, richiede un’elaborazione cognitiva, una partecipazione attiva. Non è un caso che le culture orali abbiano sviluppato una memoria prodigiosa, proprio perché ascoltare era l’unico modo per tramandare il sapere. Oggi, invece, crediamo di sapere solo perché abbiamo sentito qualcosa, ma senza averlo davvero assimilato.

Forse è per questo che ritorna il vinile, che riscopriamo l’audiocassetta, che si sente il bisogno di una musica che non sia solo consumo. Mettere un vinile non è come ascoltare una playlist su Spotify: è un gesto, un’attesa, una forma di attenzione. Un ritorno alla consapevolezza dell’ascolto.

Ma ascoltare davvero è più di un esercizio sensoriale: è un atto di resistenza. È scegliere di dare valore alle parole, è riscoprire la lentezza, è permettere alle voci di trovare spazio. Senza ascolto, il linguaggio si svuota. Senza ascolto, la comunicazione diventa sterile. Ascoltare è il primo passo verso la comprensione. Ed è solo attraverso l’ascolto che possiamo veramente sentire ciò che ci circonda.

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