Il verbo che crea, la parola che plasma: dal Giubileo al Redentore

  C’è un luogo della parola che non ammette dispersioni. Un luogo dove il verbo si fa carne, e la scrittura, in una continua tensione tra simbolo e azione, si trasforma in costruzione del reale. È il verbo che crea, che modella la storia e il tempo, che accende il fuoco delle comunità. Questo luogo oggi è minacciato dall’epoca del frastuono, ma è lì che dobbiamo tornare. Perché il verbo, quando radicato nella sua essenza, non racconta solo il passato, ma lo fa agire nel presente, lo traduce in pietra, in gesto, in monumento. (p.t.)

Il Giubileo della Comunicazione 2025, di Neria De Giovanni

Il 25 gennaio scorso ho partecipato in Vaticano al Giubileo della Comunicazione, la prima grande riunione tematica di questo Anno giubilare che Papa Francesco ha dedicato alla Speranza.

Passaggio della Porta Santa in San Pietro, assemblea di migliaia di giornalisti e comunicatori provenienti da oltre cento Paesi in Aula Paolo VI; Mario Calabresi ha coordinato gli interventi del premio Nobel per la pace Maria Ressa e dello scrittore irlandese Colum McCann, e poi il maestro Uto Ughi con la sua orchestra, e poi papa Francesco che, con umorismo, vista l’ora di pranzo, rinuncia a leggere le nove pagine di discorso che ci viene comunque consegnato. L’indomani, 26 gennaio, la Messa in Vaticano cementa due giorni di grande emozione e partecipazione.

Soprattutto è stato per me un felice momento per rivedere amici come Vania De Luca, caporedattore vaticanista del TG3, Premio Alghero Donna sez. Giornalismo 2025, e la giornalista sarda Simona Scioni; per conoscere personalmente amici di penna, come Andrea Pala, presidente per la Sardegna dell’UCSI – Unione Stampa cattolica italiana – e il Presidente Nazionale, Vincenzo Varagona, il collega dell’UCSI Lazio, Emanuele Mariani, Francesca Turi, della RAI di Bologna, e tanti altri.

Il Giubileo ordinario si celebra adesso ogni 25 anni, dopo aver iniziato addirittura per ogni 100 poi 50 anni. La mia mente va a Grazia Deledda e al suo essere cittadina romana per ben due Giubilei, quello del 1900 e quello del 1925.

Il Giubileo del 1900 indetto da parte di Papa Leone XIII (1878-1903), fu una sfida consapevole per dimostrare insieme l’attualità della dottrina cattolica e la centralità del Papato nel Regno d’Italia dopo la “ferita” di Porta Pia. Il Papa propose la costruzione di venti monumenti per un grandioso omaggio a Dio, da edificarsi su 20 monti nelle diverse regioni italiane con la costruzione di altrettanti monumenti al Redentore.

Nel 1900 vennero murati nella porta santa di San Pietro i venti mattoni provenienti dai rispettivi comitati locali, ed una pergamena esplicativa. Per la Sardegna venne scelto il Monte Orthobene, il monte di Nuoro. Per finanziare l’opera, il comitato promotore costituito per l’occasione si rivolse a tutti i sardi, sostenuto da un periodico di Cagliari, «La Sardegna cattolica», che aprì una sottoscrizione a cui partecipò anche la Regina Margherita.

A favore dell'iniziativa si attivò Grazia Deledda, che nel luglio 1901 scrisse un appello e invitò le donne sarde a raccogliere oggetti da usare per la lotteria. Lo scultore calabrese Vincenzo Jerace si aggiudicò l’opera, che fu solennemente inaugurata il 29 agosto 1901: per l’occasione erano presenti oltre diecimila persone, provenienti da tutta l'Isola.

Dall'appello alla costruzione: la parola come seme di Pasqualino Trubia

La parola della Deledda non si è persa nel vento. È diventata pagina, pietra, altare, simbolo. Perché la parola autentica, quella che non rincorre il presente ma lo plasma, ha questa forza: sa radicarsi, sa trasformarsi in azione e in memoria.

Oggi, nell’epoca del frastuono, dovremmo ricordarci che il verbo può ancora costruire, se solo smettiamo di usarlo come accessorio di contorno e torniamo alla sua essenza originaria: creare senso. Come i venti mattoni murati nella porta santa di San Pietro, anche le nostre parole possono segnare passaggi, edificare luoghi della memoria e aprire spazi per nuove azioni collettive. Non lasciamo che il verbo si svuoti, perché è da lì che il mondo trova il suo significato.

Cultura

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