Ogni giorno in Sardegna si abbassa una saracinesca. Trecentoquarantacinque bar chiusi in un anno, una morìa silenziosa che racconta più di qualunque convegno sul “rilancio dell’economia isolana”. I numeri parlano chiaro: non è solo una questione di soldi. È il sintomo di un declino più profondo, culturale, direbbe qualcuno.
A sparire non sono i locali alla moda delle città turistiche, dove il caffè costa come un pasto e la parola “barista” suona quasi offensiva. A scomparire sono le piccole caffetterie dei quartieri, gli tzilleri di una volta, quelli col pavimento consumato e la radio accesa su Radiolina. Luoghi dove la gente parlava ancora, dove le notizie giravano prima dei giornali.
Oggi restano chiusi, e spesso non per colpa non solo del fisco o dei rincari. Ma per colpa dell’improvvisazione. Troppi locali nati come scorciatoie: un figlio da sistemare, un parente da aiutare, nessuna competenza. Si apre un bar come si compra una macchina, convinti che basti un bancone e un sorriso per far quadrare i conti. Poi arrivano le spese, la burocrazia, la fatica — e chi non ha mestiere, chiude.
Il paradosso è che in un’isola che vive di socialità, i bar si spengono uno dopo l’altro. E non per mancanza di clienti, ma per mancanza di idee. Manca la professionalità, manca la cultura d’impresa, manca perfino la voglia di imparare. Il lavoro viene visto come un favore da ricevere, non come un’arte da esercitare.
Intanto i giovani non subentrano. Le imprese giovanili sono una minoranza risicata, e pochi stranieri tentano l’avventura. Risultato: un deserto commerciale punteggiato da insegne sbiadite e tavolini impolverati.
Certo, ci sono eccezioni. La Gallura e Cagliari resistono, spinte dal turismo e da chi ha capito che il futuro passa dalla qualità e non dall’improvvisazione. Ma nel resto dell’isola resta solo la malinconia di un’epoca in cui il bar era un luogo d’incontro, non un investimento fallito.
Quando chiude un bar muore una piazza. Sembra una battaglia di retroguardia ma in fondo si perde un pezzo di comunità, di quella conversazione continua che teneva insieme i paesi. La crisi, in fondo, non sta nei conti ma nelle persone. Finché continueremo a confondere il lavoro con l’assistenza e l’impresa con la parentela, non cambierà nulla.
E allora sì, chiuderà ancora un bar al giorno. Ma il problema non sarà la crisi. Saremo noi.