A Cagliari, in diecimila per ricordare che la libertà non è una concessione

C’è chi vorrebbe la memoria con il silenziatore, magari a lutto, magari in sordina. Ma il 25 aprile a Cagliari, quest’anno, ha avuto il suono forte delle voci libere. Diecimila persone – giovani e anziani, studenti, militanti, cittadini qualunque – hanno sfilato per le strade del centro, dal Largo alla Via Roma, per ricordare che la Liberazione non è una festa qualunque, né un cimelio polveroso da trattare con la deferenza delle cerimonie. Lo hanno fatto nonostante gli inviti – o sarebbe meglio dire i moniti – alla sobrietà giunti da palazzi che sembrano dimenticare troppo spesso che la libertà, in Italia, è nata da un atto di insubordinazione. E a chi chiedeva di abbassare i toni, i partecipanti hanno risposto con striscioni, canti, e anche qualche slogan fuori spartito, che parlava di Palestina, di pace e di resistenza ovunque si renda necessaria. Non perché la storia debba essere confusa con la cronaca, ma perché la cronaca stessa è figlia di ciò che abbiamo deciso, un tempo, di essere. Il corteo ha avuto il suo cuore pulsante nell’ANPI, nei sindacati, nei collettivi studenteschi. Nessuna bandiera era fuori posto, perché tutte, in quella giornata, si tenevano strette dentro un significato più grande. Persino chi marciava con lo smartphone alzato per filmare non spezzava il ritmo, ma lo moltiplicava: la memoria oggi si diffonde anche così, a colpi di stories, non solo di racconti attorno a un tavolo. Non si trattava di una celebrazione nostalgica, né di un atto di autocompiacimento. Era una presa di posizione. Una dichiarazione: siamo qui perché siamo ancora liberi, e non vogliamo dimenticare come ci siamo arrivati. Non si trattava nemmeno solo di un “dovere morale”, come piace dire nei comunicati. Era una scelta politica, nel senso più alto e pulito del termine: la scelta di stare da una parte. E questa parte, che piaccia o no, è ancora quella della resistenza. Chi c’era, lo sa. E chi non c’era, magari avrebbe fatto bene a farsi un giro. Perché c’è una lezione semplice in tutto questo: la democrazia è viva finché c’è qualcuno che ha voglia di ricordare quando e come è nata.

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