Apocalisse in Sardegna: il fuoco arriva dal cielo e la fuga è verso il mare

  Che cosa resta di un Paese quando i suoi figli scappano dalle spiagge come profughi, quando il mare diventa rifugio e le fiamme si mangiano la terra, gli alberi, le automobili, le vacanze, le certezze? Che cosa resta della Sardegna, quando un luogo come Punta Molentis — una cartolina, un angolo di paradiso — si trasforma in un inferno? Ve lo dico io cosa resta. Resta la vergogna. Resta la paura. Resta una madre incinta salvata per miracolo, un bambino che non riesce a respirare, famiglie separate dal fumo, padri che corrono sotto il sole per riportare in salvo i figli lasciati tra l’acqua e il fuoco. Resta l’Italia. Quella vera. Quella che non sa proteggere. Domenica 27 luglio 2025. Non dimenticatelo. Perché quel giorno la Sardegna è esplosa. A Villasimius, nella spiaggia di Punta Molentis, duecento bagnanti si sono ritrovati improvvisamente circondati dalle fiamme. Non in collina. Non a chilometri di distanza. Ma sulla sabbia. Tra un ombrellone e una sdraio. Le fiamme sono scese giù dai pendii come belve furiose, sospinte da un maestrale assassino, e hanno invaso ogni cosa. Un’autentica apocalisse. Non è retorica. È cronaca. È verità. Questa volta i piromani sono andati oltre. Non si sono limitati a colpire i campi, i pascoli, le serre. Hanno colpito le persone. Hanno attaccato il cuore scoperto della Sardegna: i suoi turisti, i suoi bagnanti, la sua gente.

  Le immagini — quelle che girano sui social e che ormai avete visto tutti — mostrano la disperazione. Auto in fiamme, chioschi ridotti in cenere, famiglie in fuga, bambini che piangono, uomini che gridano. Non si poteva più scappare a piedi. La spiaggia era chiusa, bloccata, soffocata. Allora si è corso verso il mare. Letteralmente. La Guardia Costiera ha recuperato 102 persone. Centodue anime che stavano per bruciare vive. La Guardia di Finanza ne ha tratte in salvo altre 39. Altri ancora sono stati soccorsi da privati, da sconosciuti che hanno preso le loro barche, i loro gommoni, e si sono lanciati a prendere chi gridava aiuto. Nessun ordine. Nessuna autorità. Solo istinto umano. Solo coraggio. In tanti hanno provato ad arrivare al parcheggio. A recuperare mogli, figli, fratelli. Ma lì c’era solo un cimitero di lamiere. Decine di auto incenerite. Alcune esplose. Altre spinte fino all’arenile, come a dire: ecco cosa resta della modernità davanti al fuoco. Per domare l’incendio — o provarci — sono arrivati due Canadair, elicotteri, Super Puma, forze della Regione, pattuglie forestali, barracelli, Forestas, volontari. Una macchina immensa. Ineccepibile. Ma sempre dopo. Sempre in rincorsa. Perché prima c’è il vuoto. Il solito vuoto. Il solito disastro annunciato.

  Nel frattempo, a Villacidro, Gergei, Osilo, Dolianova, Olbia, altri focolai. Quindici incendi solo quel giorno. Ventiquattro il giorno prima. Un bollettino di guerra. Una mappa del fuoco che si allarga di ora in ora. Ma anche una mappa dell’impotenza. Perché si continua a dire che è il vento, che è il caldo, che è il caso. Nessuno osa più dire la parola giusta: piromani. Nessuno ha più il coraggio di ammettere che dietro il fuoco ci sono mani. Mani sporche. Mani libere. E allora viene da chiedersi: quante altre Punta Molentis dovranno bruciare? Quante altre fughe via mare? Quante altre donne incinte salvate all’ultimo istante? Quanti altri bambini col fumo nei polmoni? Non bastano le parole. Non bastano le promesse. Serve memoria. Serve rabbia. Serve giustizia. Perché la Sardegna non è una cartolina da vendere in aeroporto. È una terra sacra. E se brucia ogni estate è perché qualcuno l’ha lasciata sola.

Cronaca

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