Sei anni e otto mesi. È questa la condanna inflitta a Massimiliano Coviello, in arte Max, dj di provincia con manie da impresario delle illusioni. Un nome da cartellone delle sagre estive, una fama da santone del mixer, ma soprattutto un curriculum da predatore seriale sotto le luci stroboscopiche del glamour più tarocco.
Il Tribunale di Cagliari ha messo un punto – almeno per ora – su una vicenda squallida quanto grottesca, fatta di promesse mai mantenute e carriere mai iniziate, ma usate come esca per ottenere sesso da ragazze giovanissime che speravano in un futuro fatto di riflettori e contratti. Invece si sono ritrovate a letto con un signore con troppa fantasia e troppo poca coscienza.
Coviello non è né Weinstein né Epstein. E Cagliari non è Hollywood. Ma le dinamiche sono le stesse, con la differenza che in questo filmaccio girato all’ombra della Sella del Diavolo non ci sono yacht, suite o jet privati. Solo backstage provinciali, locali da sabato sera e l’eterno, ripugnante gioco del potere tra chi sogna e chi sfrutta il sogno.
La Procura lo ha dipinto per ciò che è: un uomo che ha approfittato del suo piccolo potere in un piccolo mondo per ottenere ciò che non avrebbe mai potuto meritare altrimenti. Quattro le ragazze coinvolte secondo l'accusa, una sola ha avuto il coraggio di costituirsi parte civile – assistita dall’avvocata Patrizia Orrù – e portare la voce di tutte in quell’aula che sa sempre troppo di compromesso e troppo poco di giustizia piena.
Coviello ha scelto il rito abbreviato: tradotto, sconto di pena in cambio di un processo più rapido. Una scorciatoia giudiziaria che spesso viene spacciata per pentimento, ma che più spesso è semplice calcolo. Nessun “perdono”, nessuna parola di scuse, solo un modo elegante per cavarsela con sei anni e otto mesi, invece dei dieci e passa che avrebbe potuto ricevere in un processo ordinario.
Il giudice Luca Melis ha fatto il suo dovere, applicando la legge. Il pubblico ministero Marco Cocco ha portato avanti un’accusa difficile, fondata sul racconto di chi, in un mondo dominato da uomini con microfono e potere, ha deciso di dire basta. E tanto basta per dire che no, non è stato un errore di gioventù, non è stata ambiguità né equivoco: è stata violenza. E la violenza non è mai ambigua. Mai.
Ma il vero rumore, in questa storia, è il silenzio. Silenzio dei locali che per anni hanno ingaggiato Max il dj come se fosse il re della notte, pur sapendo, intuendo, mormorando. Silenzio degli “amici” e colleghi, improvvisamente tutti smemorati e ignari, ora che la festa è finita e il palco è crollato. Silenzio soprattutto del sistema che protegge sempre i maschi alfa anche quando di alfa non hanno niente, se non l’arroganza.
Dove sono finiti quelli che condividevano foto, brindavano nei privè e chiamavano “fratello” l’organizzatore del sabato sera? Ora tutti scomparsi, come le luci di un club spento all’alba, quando resta solo l’odore stantio dell’alcol e delle bugie.
Questa non è una storia che riguarda solo Cagliari, o solo Coviello. È un modello che si ripete in mille varianti in ogni città, in ogni provincia. L’uomo con accesso ai contatti, alle feste, alle passerelle. La ragazza con un sogno e poco potere contrattuale. E il patto implicito, mai scritto ma sempre chiaro: io ti faccio salire, tu vieni giù.
La differenza è che stavolta qualcuno ha parlato. Una sola, su quattro, ha avuto la forza di trasformare un abuso in una denuncia. E tanto basta per rompere l’omertà. Perché se la giustizia si misura in anni, il coraggio si misura in millimetri. E chi ha vissuto un abuso lo sa: ogni parola è una montagna.
Massimiliano Coviello ha perso la faccia, ma solo perché è stato costretto a toglierla. Dietro non c’era un artista, non un manager, non un mecenate. Solo un uomo che si sentiva Dio nel suo microcosmo di illusioni, mentre intorno a lui il mondo faceva finta di non vedere.
Ora la giustizia ha parlato. Forse per davvero, forse solo per metà. Ma è un inizio. Ora tocca a chi resta prendere esempio, rompere il silenzio, e restituire la voce a chi per troppo tempo ha dovuto ingoiare promesse e vergogna.
E a Max il dj, rimasto senza console e senza alibi, non resta che il buio. E un lungo remix carcerario da scontare.