A trent’anni dalla morte di Manuela Murgia, la studentessa sedicenne trovata senza vita nel canyon di Tuvixeddu, il caso è stato ufficialmente riaperto. A chiederlo con forza sono stati i familiari, che non hanno mai creduto all’ipotesi del suicidio e sostengono, da sempre, che Manuela sia stata uccisa. Ora si apre uno spiraglio investigativo che potrebbe cambiare il destino della vicenda.
Il prossimo passo sarà l’analisi degli indumenti della giovane, mai esaminati con le moderne tecniche genetiche. A occuparsene sarà uno dei massimi esperti italiani nel campo della genetica forense: Emiliano Giardina. È stato lui a isolare, grazie al DNA, il profilo di “Ignoto 1”, l’assassino di Yara Gambirasio, e oggi mette le sue competenze al servizio della famiglia Murgia.
«Sarà questione di settimane – spiega l’avvocato Bachisio Mele, legale della famiglia – poi inizieranno le analisi sui vestiti. Abbiamo chiesto una verifica approfondita, e non ci accontenteremo di ipotesi. Vogliamo la verità su cosa accadde davvero a Manuela».
La Procura, che aveva archiviato il caso come suicidio, ha ora autorizzato il nuovo ciclo di accertamenti. L’obiettivo è chiaro: isolare eventuali tracce genetiche residue sugli abiti della ragazza, che potrebbero far emergere presenze estranee e aprire nuovi scenari su quella morte mai del tutto chiarita.
Nel 1994, la vicenda venne rapidamente chiusa, nonostante i dubbi e alcune incongruenze emerse nei giorni successivi al ritrovamento del corpo. Oggi, grazie alle tecnologie avanzate, quei reperti potranno essere riletti con occhi nuovi. E forse, dopo tre decenni, restituire giustizia a Manuela.