Ci sono notti europee che restano incastonate nella memoria come medaglie, e altre che si scolpiscono nella carne come ferite. A Monaco, l’Inter cade con fragore e rumore, travolta da un Paris Saint-Germain che gioca la finale di Champions come si deve: con cuore di lupo e piedi da cesellatore. Cinque reti, cinque pugnalate, cinque epitaffi scritti da Luis Enrique e i suoi. Ai nerazzurri resta la polvere in bocca e una stagione dilapidata nel modo più crudele.
Pronti via e il PSG disegna una rete da manuale del calcio francese: palla in verticale come una lama, rifinitura in orizzontale e appoggio a porta vuota. Roba che ti stappa il fiato e ti infila la depressione sotto pelle. L’Inter è come un pugile suonato, balla sulle gambe e non vede più nulla. Di Marco devia nella propria porta un pallone carico di malasorte e fa 2-0. La ripresa è una replica del primo tempo, ma senza pietà: Doué si prende la scena, segna, raddoppia e se la ride. Quella maglia gli pesa come una piuma e i difensori dell’Inter lo marcano come si marca il vento: invano.
A venti minuti dalla fine arriva anche Kvaratskhelia, colpo gobbo sul primo palo: Sommer cade in ritardo, come il sipario su una recita storta. È il poker. Il quinto gol è solo un favore alla statistica, il giovane Mayulu trafigge ancora, una pietra tombale sulla finale. L’Inter non tira mai in porta, e questo non è un dato: è un atto d’accusa.
Lautaro non pervenuto, Barella si agita come un dannato ma contro il nulla, e Inzaghi affonda come un nocchiero senza stelle. L’Inter si è presentata in finale come un’orchestra senza spartito, scavalcata in ogni zona del campo, vilipesa, derisa e infine smontata come un mobile dell’Ikea subendo il passivo più alto della storia di una finale di Champions. Zero goal e zero titoli stagionali.
Il PSG, che di solito alle finali si suicida, stavolta ha scelto di uccidere. Non con cattiveria, ma con metodo. Luis Enrique ha costruito un mosaico e ci ha messo dentro tutto: geometria catalana, corsa francese e dolore umano.
Perché alla fine, quando tutto è detto e fatto, restano le parole. Quelle pronunciate dal tecnico spagnolo in diretta, tra i singhiozzi di Federica Masolin, colma di lacrime e vita nuova nel grembo. «Mia figlia Xana è con me da quando se n’è andata», ha detto Luis Enrique. E lì, su quel prato che sa di gloria e sudore, ha piantato la sua bandiera. Non per un trofeo, ma per mantenere una promessa. La più dura, la più dolce.
Il calcio si gioca in undici, ma certe partite si vincono con i fantasmi accanto.
«Nella vita si nasce e si muore. Tutto il resto si vede.»
E il resto, stanotte, è un’Inter travolta e un PSG che, forse, ha trovato finalmente la propria anima.