Cagliari, sabato sera. Piazza Garibaldi ribolle di slogan, tamburi e rabbia. Il corteo antifascista, nato in risposta a quello del Blocco Studentesco, si è trasformato presto in un pomeriggio di tensione. Le Forze dell’Ordine hanno avuto il loro bel da fare per contenere i più esagitati: un gioco di spinta e risposta, come sempre accade quando la piazza vuole misurarsi col potere.
Il sit-in, partito pacificamente, ha iniziato a sfilare tra via Lanusei e via Sonnino. Poi, la miccia: un gruppo ha provato a forzare il cordone di sicurezza. Gli agenti antisommossa hanno risposto con idranti e cariche di alleggerimento. Tre manifestanti sono finiti nelle camionette, più per impeto che per eroismo.
Il corteo è scivolato verso piazza Repubblica, tra bandiere e cori da manuale. C’erano simboli di ogni tipo, persino una bandiera jugoslava di Tito — quella che ha riacceso vecchi fantasmi e indignato mezzo Paese. Perché, a sventolare certi vessilli, non si celebra la libertà: si risvegliano solo gli spettri della storia.
Le scene, viste mille volte, hanno il sapore amaro della ripetizione. Sempre gli stessi slogan, le stesse accuse, le stesse facce tese. Fascisti e antifascisti, come se fossimo ancora nel ’45. Intanto la vita reale — quella dei lavoratori, degli studenti, delle famiglie — resta a guardare, distratta o rassegnata.
Alla fine restano tre fermi, qualche contuso e una città stanca di veder trasformare ogni anniversario in una rievocazione bellica. È il teatro delle ideologie, dove la recita non cambia mai. Solo che, col passare degli anni, gli attori invecchiano e il pubblico si svuota.
Forse è tempo di ammetterlo: la libertà non ha bisogno di cortei, ma di responsabilità. E il coraggio, quello vero, oggi non è gridare più forte. È smettere di farlo.