C’è un paradosso che avvolge le proteste odierne, una contraddizione che tutti fingiamo di non vedere. È l’ipocrisia della rivolta pacifica e silenziosa, quella che ci viene venduta come l’unica strada accettabile in una società civile. Ma quando mai una rivolta, davvero pacifica, ha portato a un cambiamento concreto? Quando mai chi ha sussurrato la propria indignazione ha spostato montagne? È ora di smascherare questo mito, soprattutto qui in Sardegna, dove la lotta contro le pale eoliche minaccia di diventare l’ennesimo capitolo di un libro già scritto: quello dell’immobilismo.
In questi giorni, è facile vedere le mani levate al cielo contro l’installazione delle pale eoliche. Le proteste si moltiplicano, ma sono proteste che si fermano alla superficie, manifestazioni silenziose, quasi sussurrate. Ma poi, quando qualcuno osa spingersi oltre, quando si decide che è il momento di passare dalle parole ai fatti, di mettere davvero a rischio lo status quo, ecco che parte la condanna unanime. «No, la violenza no», si dice. «La rivolta deve essere pacifica, civile, educata».
Ma a cosa serve un’opposizione educata quando l’avversario è sordo? A cosa serve gridare nel silenzio, se nessuno ti ascolta?
La verità è che siamo cresciuti con il mito del "tutti possono", con la convinzione che basti alzare la mano e chiedere con gentilezza per ottenere il cambiamento. Ma questo buonismo di fondo non è altro che una menzogna. È il comodo rifugio di chi non vuole sporcarsi le mani, di chi preferisce accontentarsi delle briciole piuttosto che combattere per un pasto completo. E così, quando le pale eoliche iniziano a svettare sulle nostre colline, minacciando di deturpare il paesaggio e di privarci del nostro territorio, la risposta che offriamo è una rivolta silenziosa, che fa il solletico ai potenti ma non li colpisce mai davvero.
Invece, chi ha il coraggio di andare oltre, chi decide che le parole non bastano più e che è il momento di agire, viene subito isolato, condannato, criminalizzato. Eppure, la storia ci insegna che le rivoluzioni, quelle vere, non nascono dalle buone maniere. Non sono le rivolte pacifiche a cambiare il mondo, ma quelle che osano sfidare il potere con tutti i mezzi necessari.
Gandhi, Martin Luther King, sono spesso citati come esempi di rivolte pacifiche, ma anche loro sapevano che, senza la pressione costante, senza la minaccia di un’escalation, i loro oppressori non avrebbero ceduto un millimetro.
E allora, cosa si può fare? Continuare a marciare in silenzio, a implorare chi non ci ascolta? O forse è il momento di riconoscere che alcune cause richiedono mezzi più incisivi, che la resistenza può richiedere forza, anche rabbia, quando è giustificata. Non sto parlando di violenza cieca, ma di azione determinata, di una ribellione che sappia cosa vuole e come ottenerlo.
La Sardegna non può permettersi di essere ancora una volta terra di conquista, sacrificata sull’altare del progresso che arricchisce pochi e impoverisce molti. Se davvero vogliamo proteggere il nostro territorio, dobbiamo essere pronti a mettere in discussione il dogma della rivolta pacifica. Dobbiamo chiederci: cosa è davvero efficace? E se la risposta è che servono metodi più duri, più decisi, allora è tempo di abbandonare le illusioni e di agire.
Siamo cresciuti in un mondo che ci ha insegnato a rispettare le regole, a credere che il cambiamento può essere ottenuto con il dialogo. Ma quando le regole sono fatte per mantenere lo status quo, quando il dialogo non è altro che una cortina fumogena, allora il rispetto diventa complicità e la pace una scusa per non fare nulla. È ora di rompere questo silenzio, di riconoscere che, se vogliamo davvero salvare la nostra terra, dobbiamo essere pronti a combattere con tutte le armi a nostra disposizione che si chiamino "Pratobello" o no.