Il grano non vale più. In Sardegna i produttori si vedono pagare meno di 30 euro a quintale, sotto i costi di produzione. La Cia Agricoltori Italiani Sardegna denuncia la crisi e chiede interventi immediati a Bruxelles e a Roma: «Ue e Governo italiano devono tutelare il settore contro l’import selvaggio e la concorrenza sleale».
I conti non tornano. Con costi medi di 1.200-1.300 euro per ettaro e rese di 30-35 quintali, i cerealicoltori perdono 300-400 euro ad ettaro. Una situazione che rischia di cancellare colture storiche dell’isola, dalla Marmilla – un tempo definita il “granaio d’Italia” – a molte altre zone interne.
Le cause, secondo la Cia, stanno tutte nelle importazioni senza controlli, che svalutano il prodotto sardo e pongono problemi di sicurezza alimentare. «Il prezzo al produttore crolla, mentre pane e pasta costano sempre di più. Chi ci guadagna sono i trasformatori e i pastifici», denunciano.
Il confronto è impietoso: in Sardegna il grano cresce rispettando i tempi naturali e senza residui tossici. Nei Paesi da cui si importa, invece, le regole sono diverse, con standard chimici meno severi. Eppure il mercato premia chi produce a basso costo.
Il 2024 è stato un anno record per la pasta italiana, ma i produttori isolani non ne hanno tratto alcun beneficio. «Di questo passo gli agricoltori smetteranno di seminare», avverte la Cia.
La ricetta? Politiche di sostegno in deroga alle regole sugli aiuti di Stato, tracciabilità seria dei prodotti, controlli reali sull’uso dei chimici e una filiera che distribuisca il valore dal campo alla tavola. Senza questo, dicono, la cerealicoltura sarda è destinata a scomparire.