Nel carcere di Uta, un giovane ucraino si lascia morire di fame. Sì, avete letto bene: sei mesi di sciopero della fame. Irene Testa, garante regionale delle persone private della libertà, denuncia la situazione con un pathos che strappa quasi una lacrima, ma lascia un retrogusto amaro di déjà-vu. "C'è un ragazzo di origine Ucraina che nel carcere di Uta conduce dal mese di maggio uno sciopero della fame. Ha perso 18 chili. La sua vita è in pericolo da un momento all'altro", dice Testa.
E il ragazzo? Un misterioso eroe tragico, o forse un altro pedone nell'assurdo scacchiere della giustizia italiana?
Testa racconta: "Dopo ore passate con lui ieri e insieme al vice direttore e la responsabile del trattamento, siamo riusciti a fargli bere una cioccolata. Quando ci siamo salutati mi ha abbracciata come un bambino. Ho chiamato la moglie per tranquillizzarla". Una scena che sembra uscita da un film drammatico, ma è la realtà cruda e spietata di un carcere italiano.
E poi il colpo di scena, un altro caso che si intreccia in questa tragicommedia: "Oggi ho segnalato la vicenda a tutte le istituzioni responsabili - prosegue Testa -. Spero possa accadere qualcosa in tempi brevi perché non c'è tempo. Ma ieri ho visto ancora una volta il delirio: uomini, all'incirca l'80% con gravi problemi psichiatrici, rinchiusi all'interno di una cella senza capire neanche perché sono lì. Persone che andrebbero curate in strutture adeguate". E poi, come in un romanzo di Kafka, aggiunge il caso di Beniamino Zuncheddu, l'ex allevatore scarcerato dopo 32 anni, innocente: "Ho portato i saluti di Beniamino a tutti come mi aveva chiesto. Tutti lo salutano e tutti sapevano della sua innocenza".
Una storia che fa riflettere, che getta luce su un sistema carcerario in crisi e su una giustizia che sembra perdere la bussola. Ma dove si nasconde la verità in questo groviglio di fatti e versioni? La risposta, come sempre, è avvolta nel mistero della burocrazia e delle convenienze. Nel frattempo, il giovane ucraino continua il suo silenzioso e disperato appello, in attesa che qualcuno, finalmente, ascolti.