I fuochi di San Giovanni (23 giugno), allora non erano di competenza dell'assessorato al turismo, che ancora forse non era in vigore, ma dei residenti che abitavano nelle strade e nelle piazze che caratterizzavano "l'Alguer vella", la città vecchia.
Ogni piazza che faceva capo ad un gruppo di strade adiacenti organizzava il suo "foc de San Jaon". Le piazzette ("las Prassettas") larghe e contornate da vari muri formavano angoli ("rucons") che ben si prestavano a tale rito. Le case sventrate dai bombardamenti ("lus palaus gittaz la nit de San Pasqual") durante la guerra, offrivano ricovero a tutti i mobili oramai consunti dall'uso e quindi da eliminare. E così, sedie sfondate ("cadrias asfrundars"), tavoli rotti ("mesas ascaxiaras"), traverse di sedie rotte ("troccias craparas"), capezzali da letto ("cazzareras de llit"), venivano ammucchiate ("ammuntunaras") als rucons, negli angoli delle case diroccate in attesa della fatidica data.
Per tutto l'anno questo materiale legnoso veniva custodito con religioso rispetto. Nessuno lo indicava come potenziale "ambarras", consapevoli che quel legname andava ad alimentare il valore ed il prestigio del rogo della piazzetta. Piazzette in concorso tra loro, la gara consisteva nell'organizzare il falò più grande ("lu fugaras mes gros"). Così le varie piazze — "la prassa de collegia", "la prassa del Carmen", "la prassa de la Misiricoldia", "la prassa de Santa Creu" — distanti un palmo tra di loro, ostentavano la loro importanza in conseguenza della maestosità del loro fugaras.
La giornata dell'accensione del fuoco ("l'anzesa del foc") era tutto un fermento: i ragazzi, sotto la direzione dei più grandi e quindi esperti, riunivano al centro della piazza il legname che per lungo tempo era rimasto "ammuntunat" negli angoli.
Qualcuno del vicinato ("lus custarels") completava "lu muntò" con qualche apporto dell'ultimo minuto, con plateale gesto di orgoglio si portava fuori casa un comò della nonna ("lu cumò de la jaja") perché la famiglia era cresciuta e "lus carascius no bastan mes i na cumprem u nou" ("ne compreremo uno nuovo"), si pensava ad alta voce sì che i vicini potessero sentire, innescando così un virtuoso giro di invidie.
Si ripeteva così ogni anno il miracolo della catasta di legno, che per un fuoco di prestigio doveva non essere inferiore all’altezza di una persona adulta. Dopo il tramonto ("a la taldeta") il fermento aumentava, "lus giovas", i giovani si preparavano.
(Questo vidi alla piazza della Misericordia in occasione di uno degli ultimi fuochi di San Joan): indossarono dei corti gonnellini, che coprivano nel davanti il bacino e dietro i glutei, ai fianchi gli spacchi che finivano con la cinghia che reggeva i due corti tovaglioli.
Si abbassavano i pantaloni, si intravedevano le mutande consunte dal tempo e dall’uso, tenute a malapena dall’elastico ormai stanco. L’effetto del vedi e non vedi, il vezzo dell’esibizionismo, era di là da venire. Là si poteva vedere tutto: "lus bandarons" compresi. Gambe rinsecchite ma forti, ginocchia scheletriche, cosce con muscoli al minimo indispensabile, corpi nutriti con pane e "malgagliò" (la radice della palma nana).
Gli arti inferiori simili a listelli snodati, conseguenza della alimentazione che comprendeva regolarmente pane, salpe e polpo e l’apporto vitaminico di "una viora". Le gambe scoperte e ancora bianche mettevano in evidenza tutta la muscolatura, che al confronto i migliori atlanti di fisiologia risultavano scarsi e insufficienti come un Bignami.
Ma non bisognava lasciarsi ingannare dalle apparenze: quelle gambe scheletriche, più simili a quelle di Abebe Bikila che a quelle possenti di Rambo, erano in grado di superare qualsiasi ostacolo, tanto erano nervose e scattanti.
Dopo essersi così svestiti da indiani, colorati i visi, le guance, la fronte, marcate le braccia con segni tribali, imbracciati archi e frecce incendiarie, dall’alto dei muri delle case diroccate, si dava inizio all’accensione della catasta: "lu Fugaras". Le frecce già ardevano e lanciate con precisione sulla catasta attizzavano il fuoco. Era un momento magico: il silenzio calava sulla piazza e il sibilo delle frecce infuocate era chiaramente udibile.
Iniziava il crepitare secco del legno. La luce pubblica cedeva al bagliore delle fiamme. Il cerchio ("lu roru") delle persone attorno al fuoco si allargava per effetto del calore. Le pupille si restringevano, le palpebre si abbassavano, qualcuno si proteggeva il viso con le mani.
La piazzetta era pervasa da una energia tangibile, qualcuno già sentiva i brividi di adrenalina, si era impazienti di saltare, ma il fuoco era ancora alto. Qualcuno provava, ma il calore formava un muro invalicabile, e con una svolta "astracanara" cambiava direzione sbattendo contro le persone.
Le fiamme si abbassavano e una voce correva:
"Ara sa pot fè." – "Ora si può fare."
Iniziava così lo scalpitare di gambe rinsecchite, gomiti agitati come ali, via il primo: uno dei più grandi. Il salto liberatorio scatenava la frenesia. Una valanga di carne (poca), ossa, gambe secche, sorvolavano il fuoco. Un persistente odore di peli bruciati ("pels brucats") impregnava l’aria. Si saltava con foga e impeto crescente. Non per farsi "cumparas de foc", ma per far parte del rito.
Intanto si faceva tardi. Le fiamme si riducevano a "tions i brascia", tizzoni e brace. Saltare non era più una "valantia". Corpi abbrustoliti richiedevano refrigerio:
"Ajo a bagnu!" – "Andiamo in acqua!"
Tutti si trasferivano verso "l’oglia i l’uglietta", la pentola e pentolino, due vasche naturali tra gli scogli della muraglia. Si scendeva dalla scalinata vicino alla torre di S. Giacomo ("la torra dels cuccius") o per la direttissima, lungo "lu rucò".
I corpi arsi e riscaldati si agitavano nell’acqua scura. Ma più che un bagno era una mattanza di tonni. L’acqua cambiava colore: era sangue.
Quelle vaschette, conosciute a vista, nel buio parevano affilare artigli. Un taglio "un trinc" si poteva trascurare, due o tre, e con l’acqua di mare iniziava il pizzicore insopportabile: segnale che il corpo dava per convincere ad uscire.
Si tornava verso "la primera scarina", alcuni, come "l’istria" (il barbagianni), si arrampicavano per "lu rucò de la paret de la muraglia", ritrovandosi attorno al fugaras. Ora non si saltava più, il fuoco era solo brace. I corpi si asciugavano, il sangue si coagulava. L’odore della salsedine lasciava posto a quello più acre e dolciastro del bruciato ("del fumat i bruscat").
La preparazione della pelle per l’arsura estiva era fatta: pronti a diventare "negras coma un tiò", neri come un tizzone.
Ora si poteva andare a dormire.
"La nit de San Joan era feta."
La notte di San Giovanni era stata celebrata.